Alessia Gazzola, L’allieva

Alessia Gazzola, L’allieva, Longanesi.

Avevo già letto il prequel di questa serie e l’avevo trovato abbastanza carino da voler leggere la serie vera e propria. Nel breve commento a quel libro avevo scritto che la giovane età della protagonista si sentiva, «con tutte le sue imbranataggini e le smaniette per il bel dottore». In questo primo romanzo della serie, invece, Alice è una specializzanda e dovrebbe quindi essere più adulta, ma le imbranataggini e le smaniette rimangono, pare che non sia cresciuta di una virgola.

Alice Allevi è una specializzanda in medicina legale e un giorno si trova ad affrontare il cadavere di una ragazza che aveva conosciuto il giorno prima. Dire che l’avesse conosciuta è esagerare un po’, perché si erano solo parlate in un negozio, ma pare che tanto sia bastato ad Alice per “affezionarsi” a Giulia. Ne nasce una vera ossessione per il caso, che la porta a fare una gaffe dietro l’altra, pur con le sue mille intuizioni.

Diciamoci la verità: Alice è un personaggio antipatico, non una macchietta che ispira simpatia con la sua goffaggine. Alice è imbranata e sembra fiera di esserlo. Non si applica, neanche sul lavoro, ma ha comunque buone intuizioni, almeno ogni tanto. Ha poi una storia d’amore con un uomo che la coinvolge moltissimo ed è forse la parte più gradevole del romanzo, sebbene anch’essa risulti un po’ forzata.

Tutto sommato, non è sicuramente il mio genere, ma mi ha fatto passare qualche ora piacevole di puro svago (anche se a volte la tentazione di prendere a testate la protagonista è stata forte) e in questo momento ci voleva. Forse andrò avanti con la serie.

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Nuovi orizzonti di lettura: chick-lit.

Valeria Montaldi, Il mercante di lana

Valeria Montaldi, Il mercante di lana, Piemme.

Avevo provato a leggere questo libro un paio di anni fa e non ero stata molto fortunata. È proprio vero che ogni libro ha il suo momento e quello non lo era. Lo avevo trovato noioso, all’epoca, e mi ero fermata ben presto. Invece ora la storia narrata da Valeria Montaldi mi ha appassionato moltissimo e l’ho trovata una lettura davvero interessante.

Frate Matthew è un frate benedettino nell’Inghilterra del XIII secolo: a un certo punto rimane invischiato nella storia di una donna che gli ha chiesto aiuto, una donna che sarà accusata di stregoneria e uccisa in nome di questa accusa. Il frate è costretto a lasciare l’amato convento e si reca nell’Europa continentale, dove una visione gli suggerisce di andare nel villaggio di Felik per convincere gli abitanti a scampare alla rovina. Il villaggio si trova in quella che oggi è la Valle d’Aosta ed è abitato dai Walser, chiamati con l’antico appellativo “walliser” nel romanzo.

Nel libro l’autrice alterna la narrazione della storia e degli avvenimenti dei vari personaggi, seguendo soprattutto frate Matthew e Sibilla, una giovane donna che abita nel villaggio di Felik. Gli abitanti di Felik e delle altre valli e villaggi hanno un ruolo molto importante nella storia e veniamo a conoscere molti di essi, fra comuni villici, mercanti (di lana, per l’appunto) e castellani. Ovviamente la storia di tutti questi personaggi finirà per intrecciarsi.

Mi è piaciuta molto la ricostruzione della vita nei villaggi e sulle strade in questo secolo che per i più è forse oscuro (non credo siano moltissimi i romanzi storici ambientati nel Duecento, o meglio ce ne sono di certo ma probabilmente non vanno per la maggiore, o forse sono solo io che non li conosco). La ricerca condotta dall’autrice è certosina, è un romanzo estremamente documentato e ben scritto. Se devo per forza trovare una pecca è il fatto che l’autrice pare ami abbondare con le virgole, il che a volte rende un po’ pesante la lettura, ma è certo un difetto di poco conto di fronte all’affresco eccezionale che crea davanti ai nostri occhi.

A questo libro fanno seguito altri tre capitoli della saga di frate Matthew, spero di leggerli presto perché mi interessa molto la sua storia.

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Questa lettura fa parte del mio tentativo di leggere più narrativa di genere; stavolta mi sono focalizzata su un romanzo storico.

Italo Svevo, Senilità

Italo Svevo, Senilità, Feltrinelli. Prima pubblicazione 1898.

Dopo una cinquantina di pagine volevo abbandonarlo, invece contrariamente al mio solito ho perseverato e ne sono molto contenta: non credo sia un capolavoro, ma è un libro molto bello.

Forse quando l’ho acquistato, anni fa (addirittura nel mio periodo fiorentino, parliamo di ben più di 10 anni fa!), sapevo di cosa parlasse, ma ora mi sono approcciata a questo romanzo non ricordando più niente della trama o dell’argomento. Quindi all’inizio ho pensato che il “leggero” fra i due fosse Emilio Brentani e non Angiolina, dato che non perde l’occasione di sottolineare che per lui è un’avventura e che non si vuole impegnare. Invece ben presto scopriamo che è proprio il contrario.

Emilio, che è forse un alter ego dell’autore (un impiegato-letterato), si innamora perdutamente, ma con un senso di possesso che ci fa pensare a tanti personaggi che troppo spesso salgono all’onore delle cronache. Emilio, sostanzialmente, non ama: Emilio vuole possedere, e basta. Angiolina è di sua proprietà. Lei però è una donna molto libera e anche libertina, in questo Svevo tratteggia un personaggio che a noi lettori del ventunesimo secolo sembra più moderno/contemporaneo che una donna di fine Ottocento. Ma lo fa per godersi la vita o si vende per bisogno? Probabilmente entrambe le cose.

È un romanzo in cui “non succede niente”, ma l’esplorazione psicologica del carattere di Emilio è eccezionale, e non ci si poteva aspettare di meno da Svevo. Molto bella la parte finale, in cui vediamo tutta l’ossessione di Emilio: nonostante la sorella Amalia sia in punto di morte, questi non rinuncia a vedere Angiolina, anzi in alcuni momenti ha in mente più lei che Amalia. Inoltre, si rende conto di non essersi accorto di tante cose riguardanti la sorella, in particolare non sa quando si sia ammalata: preso dall’ossessione passionale per Angiolina, ha visto veramente Amalia negli ultimi tempi?

Davvero bello.

Carlo Cazzola, Destierro

Carlo Cazzola, Destierro, Zandonai, 2008.

Mette tanta carne al fuoco Cazzola in appena 100 pagine: la morte, l’espatrio (il destierro), la tortura da parte della dittatura argentina, la malattia, l’amore. Eppure, lo fa con eleganza, e non infastidisce questo infarcire poche pagine di tanti temi.

Boto è l’amore della vita di Adriano: argentina, nelle primissime pagine del libro muore per un arresto cardiaco. Il lupus che viveva in lei l’ha accompagnata fino alla fine. Rispetto ad altre malattie autoimmuni, il lupus è forse quella conosciuta un po’ meglio, e infatti non è neppure la prima volta che la incontro in un romanzo. Resta tuttavia una malattia difficile da diagnosticare, difficile da avere come convivente nel proprio corpo, complessa, e tutto sommato comunque non molto conosciuta, nonostante abbia maggior “fama” rispetto ad altre, come dicevo.

La maggior parte del romanzo è narrata da Adriano, alcune parti però sono narrate da Boto, e sono quelle in cui ricorda la tortura subita da parte del regime, nella sua patria, l’Argentina. La narrazione non segue un percorso lineare ma salta dal presente al passato al passato ancora più remoto, senza soluzione di continuità.

Non è un romanzo semplice da leggere, anzi devo dire la verità, non avrei potuto scegliere un momento peggiore per leggerlo, per motivi che non sto a spiegare. Tuttavia, quando ho incontrato la parte che mi è stata difficile, la scrittura di Cazzola mi aveva già catturato e non ho potuto smettere di leggere.

Scrive bene, Cazzola, e scrive un piccolo romanzo appassionante, dove l’amore si accompagna alla consapevolezza della malattia e, di fronte alla morte, il dolore fa reagire Adriano con ottundimento anziché con disperazione.

Si legge in poco tempo e merita, purtroppo credo sia difficile da torvare perché la stupenda e compianta Zandonai ha chiuso ormai da anni. Se vi capita, però, leggetelo.

Enzo Bettiza, Esilio

Enzo Bettiza, Esilio, Mondadori, 1995.

Sono libri diversi l’uno dall’altro, ma questo di Bettiza mi ha fatto pensare (inevitabilmente, credo) a La lingua salvata di Elias Canetti: due racconti di due mondi che non esistono più, due racconti di giovinezze vissute in un mondo multiculturale ormai sorpassato dai nazionalismi e dalle voglie di monocultura. Bettiza stesso parla di monocultura, del suo odio per essa: essendo cresciuto in un ambiente in cui le culture si fondevano e convivevano l’una con l’altra, non avrebbe potuto essere che così (poi sorvoliamo sul pensiero di Bettiza, specie in tempi più o meno recenti, non m’interessa particolarmente in questo contesto).

Qualunque cosa voi possiate pensare di Bettiza, che è stato in primis giornalista e tra l’altro ha fondato “Il Giornale” insieme a Indro Montanelli, lasciatevelo se possibile alle spalle, perché quello che racconta in questo libro è importante, e inoltre lo fa con stile ed eleganza. Non avevo mai letto altri suoi libri, ma lo trovo un narratore sopraffino, seppure a volte si perda in reminiscenze un po’ prolisse. Prima fra tutte quella sulla cucina e i sapori della sua infanzia dalmata: pagine interessantissime, dove sembra di sentire i sapori raccontati, ma che vanno avanti ben più del lecito per non annoiare il lettore.

Vedo che oggi la maggior parte dei libri di Bettiza è introvabile o quasi; lo trovo un peccato perché ha una scrittura eccellente che vorrei approfondire assolutamente, anche nella narrativa. Non capisco neppure perché siano ormai fuori catalogo, dato che questo ad esempio ha anche vinto il Campiello.

Enzo Bettiza nasce in Dalmazia negli anni Venti del secolo scorso, figlio di padre italiano e madre croata. Alt, fermiamoci subito. Siamo negli anni Venti e la Dalmazia non è come la conosciamo noi oggi. Il padre di Bettiza ha optato per la cittadinanza italiana alla fine della prima guerra mondiale, mentre la madre era slava, così come anche altri parenti dello scrittore, pure da parte di padre, dato che dopo la guerra ognuno era libero di scegliere fra la cittadinanza italiana e quella jugoslava.

Bettiza riceve la propria educazione nelle scuole italiane, prima nella nativa Spalato e poi a Zara. È però perfettamente bilingue, italiano e serbo-croato, anche grazie all’amatissima balia serba, che gli racconta tra l’altro le storie della sua terra.

Il libro arriva fino alla guerra, ai tempi appunto dell’esilio, quando la ricca famiglia Bettiza, proprietaria di un importantissimo cementificio a Spalato, passa all’estremo opposto della disgrazia e della povertà ed è costretta all’esilio in Italia. Questa parte non è però raccontata nel libro, eccetto il breve esilio del 1943, di un mese, trascorso a Civitanova Mare (Civitanova Marche).

Bettiza dice nell’epilogo che i percorsi che questo libro traccia sono diversi: lui avrebbe voluto raccontare il presente della guerra e della dissoluzione della Jugoslavia nei primi anni Novanta, visto attraverso il velo del passato, invece ha finito per scrivere un altro tipo di libro, che può essere letto in vari modi. Un’autobiografia? Sì, certo. Una saga familiare? Senz’altro. La storia di Spalato? Assolutamente sì. Io però lo vedo più come il canto di un’epoca che non c’è più, di un mondo che non c’è più.

C’è un libro di Israel J. Singer, che devo ancora leggere, che si intitola Da un mondo che non c’è più. Questo libro di Bettiza avrebbe potuto chiamarsi allo stesso modo. La Dalmazia, la Felix Austria, la Galizia, e tutti gli altri mondi ormai passati e finiti nel dimenticatoio. Qui troverete questo tipo di narrazione.

Poi un vecchio articolo di Repubblica parla di jugonostalgia: è vero, Bettiza è un nostalgico, è un oppositore della monocultura, un amante del multiculturalismo, della convivenza tra culture, del bilinguismo. Ma non lo vedrei in senso negativo, tutt’altro. Ci sono tanti nostalgici dell’Impero Austro-Ungarico, per esempio: ora, se la si butta sul folklore e sulla caciara, può sembrare una cosa irrevocabilmente passatista, una nostalgia del tutto negativa e un po’ ridicola, come i nostalgici dei Savoia. Secondo me non è per niente così. Si tratta, anche nel caso di Bettiza ma non solo, di una nostalgia per un mondo che sapeva in certo modo essere più aperto del nostro, che sapeva abbracciare diversi popoli e culture, senza per forza doverli fondere sotto una cultura cosiddetta superiore o migliore delle altre, ma lasciandole convivere l’una accanto all’altra. L’appiattimento culturale auspicato dai nazionalismi non è, secondo me, auspicabile, ma proprio per niente. Bettiza non voleva un’assimilazione forzata, avrebbe voluto tornare alla convivenza e al multiculturalismo, pur sapendo che solo sulla carta di un libro questo sarebbe stato possibile.

Se vi capita di trovare questo libro in biblioteca o in qualche bancarella, non lasciatevelo scappare. Tenete duro durante il noioso prologo, tenete duro quelle volte che le reminiscenzedi Bettiza, culinarie e non, vi annoieranno: ne varrà la pena.