Galsan Tschinag, Der blaue Himmel (Il cielo azzurro) (Mongolia)

Galsan Tschinag, Der blaue Himmel, Suhrkamp, 1997.

Galsan Tschinag è il nome mongolo di Irgit Shynykbai-oglu Dshurukuwaa, scrittore mongolo di etnia tuvana che scrive però in tedesco. Tschinag ha studiato nell’ex DDR ed è poi tornato in Mongolia a insegnare tedesco all’università di Ulan Bator. Immagino che abbia deciso di scrivere in tedesco per avere un maggiore accesso a un pubblico internazionale.

Tuva è una repubblica russa confinante con la Mongolia, ma alcune migliaia di tuvani vivono anche in Mongolia. La loro lingua è il tuvano, una lingua di ceppo turco, e sono noti per il canto tradizionale difonico, il Khoomei.

Questo libro, pubblicato in italiano da AER con la traduzione di Italo Mauro e con il titolo Il cielo azzurro, è la prima parte di una trilogia che compone l’autobiografia romanzata dell’autore. La casa editrice tedesca lo presenta in realtà come “Roman”, romanzo, e non avrei saputo che si trattava di un’autobiografia se non fosse stato per il commento di un’amica che ha letto l’edizione inglese, dove c’è una nota dell’autore.

Il libro è narrato da un bambino molto piccolo, non sappiamo quanti anni abbia di preciso ma di sicuro non è ancora in età scolare. Il piccolo parla di una vita dura in mezzo alle montagne dell’Altai, dove i suoi genitori sono pastori nomadi che vivono in una iurta. Il bambino deve aiutare con il gregge fin da piccolo, tanto che alla fine in un momento di grande dolore dirà che viene trattato come un servo e si lamenterà della sua vita piena di sofferenza. Oltre che con i genitori, il fratello e la sorella (entrambi poco più grandi di lui), il piccolo Dshurukuwaa vive con la nonna e con il cane Arsylang, entrambi amatissimi.

Dal libro traspare l’amore fortissimo per la nonna (pur non essendo davvero la nonna biologica) e per Arsylang ed entrambi hanno un capitolo dedicato a loro. Traspare inoltre il paesaggio aspro ma bellissimo dell’Altai, la vita dura dei pastori nomadi e parzialmente anche la vita sotto il comunismo, quando il rappresentante del sumun viene a prendere i fratelli del narratore per mandarli a scuola.

Il libro si chiude con la morte di Arsylang e le maledizioni lanciate dal piccolo Dshurukuwaa al loro Dio, il “cielo azzurro”. Viene voglia dunque di sapere come siano proseguite le cose per Dshurukuwaa/Galsan e come da qui sia arrivato a diventare scrittore e sciamano. Magari un giorno mi procurerò gli altri due volumi dell’autobiografia e tornerò a farvi sapere le mie impressioni.

Gerald Durrell, La mia famiglia e altri animali

Gerald Durrell, La mia famiglia e altri animali (tit. originale My Family and Other Animals), Adelphi, 1990. Pubblicazione originale 1956. Traduzione di Adriana Motti.

Questo libro giaceva impolverato nella mia libreria, e più ci penso meno ricordo come ci è finito: regalo? Acquistato e se sì, quando e dove? Non saprei, so solo che non ha mai tanto catturato il mio interesse nonostante la fama di cui gode. Però finalmente mi sono decisa a leggerlo ed è stato uno di quei casi in cui mi sono chiesta: perché mai ho aspettato tanto? Ma in realtà ho aspettato proprio il momento giusto: ero giù, facevo fatica a concentrarmi anche sulla lettura, e questo libro mi ha aiutato tantissimo.

Come leggerete da tante altre parti, è un libro divertentissimo. Mi ha fatto proprio ridere di cuore. E nonostante io non sia appassionata di scienze naturali, è stata una lettura fantastica, secondo me fra le migliori dell’anno.

Gerald Durrell era un naturalista e zoologo britannico, fratello dello scrittore Lawrence, anche lui ritratto nel libro. Nel 1935, quando aveva 10 anni, si trasferì in Grecia con la famiglia, precisamente a Corfù. Perché? Semplicemente perché Larry, il figlio più grande, all’epoca ventitreenne, pensava che fosse una buona idea andare a stare in un posto meno umido e più assolato. Così, venduta la casa in Inghilterra, la famiglia al completo parte per Corfù: Gerald, la madre vedova e i fratelli Larry, Leslie e Margo. E il cane Roger.

Durrell narra qui alcune vicende dei suoi cinque anni trascorsi sull’isola, naturalmente all’insegna dell’amore sfrenato per gli animali, che lo porta a portarsi in casa le bestie più assurde: gabbiani, gazze, scorpioni e chi più ne ha più ne metta.

Ciascuno dei familiari di Durrell, ma anche gli altri personaggi, sono caratterizzati come delle vere e proprie macchiette, compreso lui stesso. Lui ama smodatamente gli animali, la madre adora cucina e giardinaggio, Larry è uno scrittore pieno di sé, Leslie va pazzo per la caccia, Margo ama esclusivamente la propria bellezza e le diete. Ogni personaggio risulta buffissimo e a volte tenerissimo. Ovviamente, in particolare ameremo Gerald/Gerry, ma anche gli altri sono eccezionali.

Le scene più divertenti per me sono state quella degli scorpioni, quella del console belga e quella del compleanno di Gerry.

Nel primo caso, Gerry decide di portare a casa una scorpionessa con relativi figli, nascondendoli in una scatola di fiammiferi per non far arrabbiare i familiari che sicuramente non sarebbero stati d’accordo. Però li dimentica lì finché Larry non fa per accendersi una sigaretta… segue il pandemonio.

Il console belga è la persona designata a insegnare il francese a Gerry (il quale pare un selvaggio e un ignorante, conosce solo gli animali e nient’altro). Va in giro in frac e ogni tanto, mentre fa lezione, spara dalla finestra, per poi tornarsene con le lacrime agli occhi. Grande amante dei gatti, spara ai gatti macilenti che ci sono in giro per il quartiere per non farli morire di stenti. Per giunta, è convintissimo che la madre di Gerry parli il francese e le fa lunghi discorsi a cui lei risponde con l’unica parola che conosce: “Oui oui”.

Durante la festa di compleanno di Gerry, infine, succede di tutto e di più (mai come durante il ricevimento alla fine del libro, comunque) e infine tutti si mettono a ballare danze greche, incluso il maggiordomo.

Mi rendo conto che a raccontarle così queste scene fanno forse appena sorridere, ma Durrell ha una verve comica irresistibile e come le racconta lui ci si può solo sbellicare dalle risate.

Inoltre, ovviamente questo libro è interessante anche dal punto di vista naturalistico, anche se va chiaramente ricordato che stiamo vedendo tutto con gli occhi di un bambino di dieci anni.

Non è un libro consigliato, è stra-consigliato!

Enzo Bettiza, Esilio

Enzo Bettiza, Esilio, Mondadori, 1995.

Sono libri diversi l’uno dall’altro, ma questo di Bettiza mi ha fatto pensare (inevitabilmente, credo) a La lingua salvata di Elias Canetti: due racconti di due mondi che non esistono più, due racconti di giovinezze vissute in un mondo multiculturale ormai sorpassato dai nazionalismi e dalle voglie di monocultura. Bettiza stesso parla di monocultura, del suo odio per essa: essendo cresciuto in un ambiente in cui le culture si fondevano e convivevano l’una con l’altra, non avrebbe potuto essere che così (poi sorvoliamo sul pensiero di Bettiza, specie in tempi più o meno recenti, non m’interessa particolarmente in questo contesto).

Qualunque cosa voi possiate pensare di Bettiza, che è stato in primis giornalista e tra l’altro ha fondato “Il Giornale” insieme a Indro Montanelli, lasciatevelo se possibile alle spalle, perché quello che racconta in questo libro è importante, e inoltre lo fa con stile ed eleganza. Non avevo mai letto altri suoi libri, ma lo trovo un narratore sopraffino, seppure a volte si perda in reminiscenze un po’ prolisse. Prima fra tutte quella sulla cucina e i sapori della sua infanzia dalmata: pagine interessantissime, dove sembra di sentire i sapori raccontati, ma che vanno avanti ben più del lecito per non annoiare il lettore.

Vedo che oggi la maggior parte dei libri di Bettiza è introvabile o quasi; lo trovo un peccato perché ha una scrittura eccellente che vorrei approfondire assolutamente, anche nella narrativa. Non capisco neppure perché siano ormai fuori catalogo, dato che questo ad esempio ha anche vinto il Campiello.

Enzo Bettiza nasce in Dalmazia negli anni Venti del secolo scorso, figlio di padre italiano e madre croata. Alt, fermiamoci subito. Siamo negli anni Venti e la Dalmazia non è come la conosciamo noi oggi. Il padre di Bettiza ha optato per la cittadinanza italiana alla fine della prima guerra mondiale, mentre la madre era slava, così come anche altri parenti dello scrittore, pure da parte di padre, dato che dopo la guerra ognuno era libero di scegliere fra la cittadinanza italiana e quella jugoslava.

Bettiza riceve la propria educazione nelle scuole italiane, prima nella nativa Spalato e poi a Zara. È però perfettamente bilingue, italiano e serbo-croato, anche grazie all’amatissima balia serba, che gli racconta tra l’altro le storie della sua terra.

Il libro arriva fino alla guerra, ai tempi appunto dell’esilio, quando la ricca famiglia Bettiza, proprietaria di un importantissimo cementificio a Spalato, passa all’estremo opposto della disgrazia e della povertà ed è costretta all’esilio in Italia. Questa parte non è però raccontata nel libro, eccetto il breve esilio del 1943, di un mese, trascorso a Civitanova Mare (Civitanova Marche).

Bettiza dice nell’epilogo che i percorsi che questo libro traccia sono diversi: lui avrebbe voluto raccontare il presente della guerra e della dissoluzione della Jugoslavia nei primi anni Novanta, visto attraverso il velo del passato, invece ha finito per scrivere un altro tipo di libro, che può essere letto in vari modi. Un’autobiografia? Sì, certo. Una saga familiare? Senz’altro. La storia di Spalato? Assolutamente sì. Io però lo vedo più come il canto di un’epoca che non c’è più, di un mondo che non c’è più.

C’è un libro di Israel J. Singer, che devo ancora leggere, che si intitola Da un mondo che non c’è più. Questo libro di Bettiza avrebbe potuto chiamarsi allo stesso modo. La Dalmazia, la Felix Austria, la Galizia, e tutti gli altri mondi ormai passati e finiti nel dimenticatoio. Qui troverete questo tipo di narrazione.

Poi un vecchio articolo di Repubblica parla di jugonostalgia: è vero, Bettiza è un nostalgico, è un oppositore della monocultura, un amante del multiculturalismo, della convivenza tra culture, del bilinguismo. Ma non lo vedrei in senso negativo, tutt’altro. Ci sono tanti nostalgici dell’Impero Austro-Ungarico, per esempio: ora, se la si butta sul folklore e sulla caciara, può sembrare una cosa irrevocabilmente passatista, una nostalgia del tutto negativa e un po’ ridicola, come i nostalgici dei Savoia. Secondo me non è per niente così. Si tratta, anche nel caso di Bettiza ma non solo, di una nostalgia per un mondo che sapeva in certo modo essere più aperto del nostro, che sapeva abbracciare diversi popoli e culture, senza per forza doverli fondere sotto una cultura cosiddetta superiore o migliore delle altre, ma lasciandole convivere l’una accanto all’altra. L’appiattimento culturale auspicato dai nazionalismi non è, secondo me, auspicabile, ma proprio per niente. Bettiza non voleva un’assimilazione forzata, avrebbe voluto tornare alla convivenza e al multiculturalismo, pur sapendo che solo sulla carta di un libro questo sarebbe stato possibile.

Se vi capita di trovare questo libro in biblioteca o in qualche bancarella, non lasciatevelo scappare. Tenete duro durante il noioso prologo, tenete duro quelle volte che le reminiscenzedi Bettiza, culinarie e non, vi annoieranno: ne varrà la pena.

Anna Wiener, La valle oscura

Anna Wiener, La valle oscura (tit. originale Uncanny Valley), Adelphi, 2020. Traduzione dall’inglese di Milena Zemira Ciccimarra.

Sarò sincera, questo libro è stato una tortura. L’idea era interessante: raccontare la Silicon Valley nel bene e soprattutto nel male, svelandone i lati oscuri. Il primo quarto del libro è stato, in effetti, abbastanza interessante. Poi ha cominciato a ripetersi e a sbrodolare, fino a diventare un intruglio insopportabile. Non come quando mandi giù una medicina amara, no: la medicina fa schifo ma almeno serve, questo invece non serve proprio a niente.

Anna Wiener ha 25 anni e lavora nell’editoria a New York. A un certo punto, non è che si capisca bene perché, decide di lasciare New York (da cui non era mai uscita!) e di trasferirsi a San Francisco per lavorare nel settore del tech. Per i soldi, pare di capire. Non per il successo, proprio e solo per guadagnare di più. Legittimo. Wiener però non ha alcuna formazione di tipo tecnologico, non è programmatrice, non è ingegnere informatico, è un’umanista e le piacciono i libri. Tuttavia, trova lavoro in un’azienda di analisi dati prima, e in un’azienda di software open source poi, anche se ovviamente non in un ruolo tecnico.

Ed ecco subito la cosa più irritante di questo libro: Wiener non nomina mai nessuna delle aziende di cui parla. Non solo quelle per le quali ha lavorato (che avrebbe anche potuto avere senso, se avesse rivelato qualche grande segreto, ma ci torno fra un attimo), ma neanche quelle che cita di sfuggita o che c’entrano molto relativamente con il suo lavoro, essendo più che altro parte della quotidianità di ciascuno. Per esempio, “il social network che tutti odiavano”. Mica Facebook, no? “Il grande negozio online”. Oddio, che grande ed efficace modo di nascondere che sta parlando di Amazon. E così via. Nessuna, dico nessuna azienda ha un nome. Ma dirò di più, proprio niente ha un nome. A un certo punto un personaggio cita una famosa frase del Trono di Spade, ma mica penserete che Wiener possa nominare il titolo del romanzo? Certo che no, è semplicemente “un famoso romanzo fantasy”.

Allo stesso modo, pochissime delle persone di cui l’autrice parla vengono chiamate per nome. Solo i suoi amici e il suo fidanzato. In questo caso potrebbe avere senso per dare l’idea della spersonalizzazione attiva nella Silicon Valley, invece visto quanto sopra ha senso probabilmente solo nella testa dell’autrice.

Comunque, se proprio siete curiosi, qui c’è chi si è preso la briga di identificare tutto e tutti. Diciamo però subito che nella maggior parte dei casi, qualunque persona frequenti internet capirà perfettamente di che aziende si sta parlando, vedi gli esempi sopra. Quindi, esercizio del tutto inutile se non per irritare i lettori. O almeno me.

Detto questo, il rischio di un libro come questo era dietro l’angolo: finire per suonare come il racconto (a quanto pare è un memoir, dice il sottotitolo dell’edizione originale) di una persona privilegiata, annoiata, che vuole i soldi ma allo stesso tempo aborre il modo per guadagnarli, e schifa tutti quelli che come lei vogliono i soldi. In effetti spesso schifa anche se stessa, quindi un minimo di autocritica c’è, però sembra più di superficie che di sostanza, onestamente. Il succo, in ogni caso, è: la Silicon Valley e l’industria del tech fanno schifo. Va bene, è il suo punto di vista.

Ora, tante delle cose che Wiener racconta possono essere interessanti per chi non conosca quel mondo, però sarebbe bastato un articolo di giornale, per la miseria. Altro che 300 pagine. Tuttavia, seppure molto parzialmente e incidentalmente, è un mondo di cui ho avuto una minima esperienza avendo lavorato per una delle tante aziende che cita, seppure in Europa e non in America, quindi le cose erano parecchio diverse, anche se con un fil rouge comune. Tuttavia, per me non è stato un libro che mi ha aperto gli occhi su qualche realtà totalmente aliena. Ma a dire il vero, fatico a pensare che possa esserlo per qualcuno.

Infatti, Wiener non racconta niente, sostanzialmente. Se non le sue giornate passate a rispondere alle richieste di assistenza, gli amministratori delegati che si credono dio, la finta superiorità dei colleghi e in particolar modo di quelli che sono davvero “tecnici”, l’alienazione data dalla continua commistione tra lavoro e tempo libero. Eccetera. Niente di eccezionale, niente che non abbiamo già sentito da altri mille articoli o persone che in quel mondo hanno lavorato. Wiener non svela niente. Non ci sono rivelazioni dove uno dice “ah! oooh!”. Wiener non è una whistleblower, ma neppure ci si avvicina a una distanza di diecimila chilometri. Wiener parla della sua vita, che è una vita noiosa e come quella di tanti altri lavoratori di start-up o multinazionali di stampo americano. Niente di nuovo sotto il sole, ve lo assicuro.

Inoltre, l’autrice è vagamente ossessionata dal sessismo, ma in maniera un po’ incidentale, come se ogni tanto si svegliasse dal suo soporifero racconto e si ricordasse che doveva parlare di sessismo nella Silicon Valley e nel tech. Non metto in dubbio che sia un settore sessista, dato che è in prevalenza maschile. Anzi, ne sono abbastanza sicura. Ma mi dispiace dirlo, gli episodi raccontati dall’autrice non sono particolarmente sessisti. Come dice questa recensione di una donna femminista e vittima di vere discriminazioni sessiste e razziste, affermare che ogni minima cosa sia sessista o razzista riduce il potere della lotta contro le vere discriminazioni. Mio pensiero da sempre, ma fa brutto dirlo, anzi in certi ambienti è proprio vietato, tabù.

Se proprio vi sentite interessati, qui ci sono molti estratti dall’originale inglese. Qui invece c’è una bella recensione di una persona a cui il libro è piaciuto. Io però mi sento di consigliarvi di impiegare in altro modo il vostro tempo.

André Aciman, Ultima notte ad Alessandria

André Aciman, Out of Egypt, Riverhead Books, 1996. Pubblicazione originale 1980.

**Libro pubblicato in italiano da Guanda nel 2009 con il titolo Ultima notte ad Alessandria, tradotto da Valeria Bastia.**

Premetto che non ho (ancora) letto il libro più famoso di André Aciman, Chiamami col tuo nome. Nonostante ciò ho voluto leggere questo suo libro di memorie, dopo aver letto alcune recensioni su Goodreads che mi avevano fatto pensare a un’altra autobiografia che ho molto amato, La lingua salvata di Elias Canetti.

In effetti, le due autobiografie presentano dei paralleli, dovuti principalmente al fatto che entrambi gli autori sono ebrei sefarditi.

Pensavo che la famiglia che Canetti descrive nel primo volume della sua autobiografia fosse unica nel suo genere, ma mi devo ricredere leggendo questo libro.

Gli ebrei sefarditi furono cacciati dalla Spagna nel 1492 e solo dopo quasi quattro secoli il loro paese di origine sancì il diritto alla libertà religiosa, consentendo così il loro ritorno. Nel frattempo però i sefarditi si erano spostati e insediati in vari luoghi soprattutto nel bacino del Mediterraneo. Gli avi di Aciman si erano stabiliti a Costantinopoli, ma successivamente si trasferirono ad Alessandria. Lo scrittore è dunque nato e cresciuto in Egitto, paese che abbandonerà definitivamente all’età di 14 anni, nel 1965, a causa delle “sottili pressioni” esercitate dal regime di Nasser.

In questo libro Aciman narra la sua infanzia e pre-adolescenza in Egitto e la storia della sua incredibile famiglia. L’autore ci accompagna solo fino alla cacciata dall’Egitto, fermandosi subito prima della partenza della famiglia. Perciò tutto il libro si svolge in Egitto, ad Alessandria.

La famiglia di Aciman, come quella di Canetti, è variopinta e variegata. Il primo personaggio che Aciman ci fa incontrare è lo zio Vili, un convinto fascista che però finirà per lavorare come spia per il governo britannico. Conosciamo poi tutto il resto della famiglia: le nonne (la Principessa e la Santa), le zie e gli zii, il padre e la madre. La vera protagonista di questo libro è la famiglia, in un certo senso André Aciman rimane un po’ sullo sfondo: ci parla sì delle sue disastrose esperienze scolastiche, ma pare quasi farlo solo per poter meglio illustrare le reazioni della famiglia ai suoi fallimenti scolastici.

È anche difficile sottolineare singoli episodi o personaggi in questo libro che è quasi cacofonico, ma in senso buono. Lo zio Vili il fascista donnaiolo, la madre sorda tanto apprezzata dalla suocera solo finché era una semplice vicina di casa e poi considerata un’handicappata in seguito al fidanzamento con il suo bravo figliolo. Ma ogni componente della famiglia è un mondo in sé e la loro vita appare un tripudio di colore, per così dire. Non mancano inoltre, fra i personaggi, i servi della famiglia, a partire dal fedele Abdou per arrivare alla sfortunata Latifa.

Un mondo di suoni, colori, sapori, lingue. La lingua degli ebrei sefarditi è il ladino, da non confondersi con il ladino parlato nel Tirolo; ma la famiglia Aciman parla un misto di francese, ladino e italiano, con un potente odio per l’arabo e una quasi nulla conoscenza dell’ebraico, se si esclude lo zio Nessim. Pensiamo solo che per gran parte della sua infanzia il piccolo André è convinto di essere un cittadino francese, tuttavia frequenterà scuole inglesi sia ad Alessandria che in seguito, a Roma e a New York.

Questo come dicevo non c’è nel libro, ma la famiglia Aciman si stabilisce nel 1969 a New York e successivamente André ottiene la cittadinanza americana e avvia la sua carriera di scrittore e grande studioso di Marcel Proust. La scrittura di Aciman (che scrive in inglese) è meravigliosa e perfetta per rendere le particolarità della sua famiglia. Non vedo l’ora di leggere altri suoi libri, il suo stile è eccellente.