Elizabeth von Arnim, Due gemelle in America

Elizabeth von Arnim, Christopher and Columbus, pubblico dominio. Pubblicazione originale 1919.

*Libro pubblicato in italiano da Bollati Boringhieri con la traduzione di Simona Garavelli, prima con il titolo Cristoforo e Colombo e successivamente Due gemelle in America. L’originale inglese, Christopher and Columbus, può essere scaricato gratuitamente da qualsiasi sito di ebook di pubblico dominio.*

La mia passione per Elizabeth von Arnim non è un mistero, perciò quale modo migliore per iniziare il nuovo anno che leggere un suo libro? Questo romanzo non è particolarmente conosciuto ma, come tutti i suoi libri, è molto gradevole. Senza dubbio non è fra i suoi migliori, anzi diciamo la verità, a tratti è anche un po’ noiosetto (500 pagine sono tante per questa storia), però rimane una lettura piacevole.

Anna-Rose e Anna-Felicitas sono due sfortunate gemelle di 17 anni, ma non sono identiche, almeno nell’aspetto. Sono tuttavia due bellissime ragazze, sebbene tendano a dimostrare qualche anno in meno dei loro 17 anni. Siamo agli inizi della prima guerra mondiale e le due sorelle hanno la sfortuna di avere un padre tedesco e una madre inglese. Quando il padre muore, la madre le porta con sé in Inghilterra, ma presto muore anche lei, lasciandole con gli zii Alice e Arthur. Zia Alice le tollera, in quanto figlie della sorella, zio Arthur invece non le sopporta proprio, soprattutto perché tenersi in casa due tedesche in quel periodo è davvero una pessima idea. Decide così di lavarsene le mani spedendole in America e affidandole alla protezione di una coppia di amici di Boston, lasciando di riserva un’altra coppia di Acapulco nel caso le cose non dovessero andare come previsto.

Le gemelle partono così in nave, dove incontrano il simpatico Mr. Twist, un americano che lavora con la Croce Rossa in Francia e sta tornando a trovare l’anziana madre. I tre fanno amicizia e ben presto Mr. Twist diventa il loro protettore. Molte volte nel corso del romanzo l’autrice ripeterà che Mr. Twist è una madre mancata (sì, una madre, non un padre): è stato proprio programmato dal buon Dio per essere madre, purtroppo però il Signore deve aver commesso un errore assegnandogli il genere maschile. Mr. Twist è infatti una super chioccia, tratta le gemelle come due figlie, le protegge, le consola, le conforta, le aiuta, a volte anche si arrabbia con loro proprio come farebbe una mamma, e non gli passa neanche per la testa di pensare a loro come ad altro che due bambine. Chiaramente è l’unico a considerarle tali, quindi non si rende subito conto del pericolo corso nella bigotta America, dove la gente mormora vedendo un uomo e due bellissime fanciulle insieme senza che sia chiaro il loro legame di parentela (perché devono per forza essere parenti, altrimenti non potrà che trattarsi di bieca abiezione).

Le avventure delle gemelle e di Mr. Twist sono a tratti esilaranti, a tratti tenere e a tratti tristi. L’odio provato da tutti nei confronti delle tedesche è quasi caricaturale, per esempio quando zio Arthur fa un primo tentativo di mandarle come infermiere in un ospedale inglese e vengono maltrattate da tutti. Ma temo che, al di là dei momenti chiaramente caricaturali, l’odio di inglesi e americani nei confronti dei tedeschi agli inizi della prima guerra mondiale fosse assolutamente rispondente al vero.

Come tutti gli altri libri di von Arnim, è un libro molto carino, pieno di humour, simpatico, ma non rifugge da accenni un po’ più profondi, nello specifico appunto relativamente all’odio bovino nei confronti di tutti i tedeschi. Ma è molto più leggero degli altri suoi romanzi: le riflessioni che nasconde sotto la leggerezza di fondo, mi pare, sono poche; credo che qui l’autrice abbia voluto più che altro scrivere un romanzo leggero e gradevole. Di solito la sua leggerezza nasconde altro, ma qui non tanto. Forse è per questo che l’ho apprezzato meno degli altri, tuttavia resta un libro gradevole che consiglio, però non utilizzatelo come primo approccio a questa autrice.

Elizabeth von Arnim, La memorabile vacanza del barone Otto

Elizabeth von Arnim, The Caravaners, pubblico dominio. Pubblicazione originale 1909.

Qualche tempo fa in un gruppo qualcuno aveva chiesto consigli su Elizabeth von Arnim e, fra i tanti libri citati, era stato raccomandato questo The Caravaners (pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri con il titolo La memorabile vacanza del barone Otto). Siccome adoro questa autrice e non avevo mai sentito parlare di questo romanzo, non mi sono fatta scappare l’occasione di scaricarlo da Internet Archive. Le persone che lo consigliavano ne parlavano come di un libro molto divertente. Le recensioni su Goodreads sono un po’ miste, c’è chi l’ha trovato noioso e chi divertentissimo.

Ora, il mio dubbio è questo: sono strana io o sono gli altri lettori ad essere superficiali? Perché vi assicuro che questo libro non è affatto divertente. Non mi fraintendete, non faccio parte dei lettori che lo hanno trovato noioso. È una questione del tutto diversa.

Una delle caratteristiche migliori dei libri di Elizabeth von Arnim è l’ironia e la leggerezza dietro cui l’autrice riesce a parlare di temi importanti. Von Arnim è eccezionale perché critica molte convenzioni del suo tempo, senza farti subito rendere conto di quello che sta facendo. I suoi libri hanno una superficie di tale leggerezza che un lettore meno attento potrebbe quasi non accorgersi del pensiero assolutamente innovativo e fuori dagli schemi di questa scrittrice di inizio Novecento.

Ho letto sette dei suoi libri e ho trovato questa sottile ironia assente solo da uno, Vera, che al contrario è cupissimo (ma pure in quel caso, alcuni lettori sono stati in grado di vederlo come una storia d’amore…): ne ho parlato qui.

In La memorabile vacanza del barone Otto non c’è traccia di ironia: è una satira feroce del maschio alfa prussiano che crede se stesso (e la Prussia) il centro del mondo e ne è tanto convinto da non riuscire in nessun caso a vedere al di là del proprio naso, finendo per rovinare qualunque situazione.

Il barone Otto von Ottringel e la sua giovane moglie Edelgard decidono di trascorrere una vacanza estiva in Inghilterra, dove noleggeranno tre caravan insieme ad altre persone (due tedesche e le altre inglesi) e andranno in giro per la campagna inglese, in teoria per un mese. Invece la loro vacanza finirà dopo appena una settimana perché il barone inquina l’atmosfera fin dal primo minuto.

All’inizio il tutto può anche sembrare divertente, sicuramente alcune delle avventure lo sono. Ma ci vuole ben poco a cambiare idea, poche pagine, direi.

La storia è narrata dal punto di vista del barone: meglio ancora, questo è il diario in cui il barone racconta la vacanza; un diario scritto per poi leggerlo agli amici tedeschi e passare insieme qualche serata a parlare delle esperienze vissute in Inghilterra. Tanto di cappello a von Arnim che riesce a entrare nella testa di questo nobiluomo misogino e nazionalista tanto da farlo parlare in prima persona. L’autrice dimostra un talento eccezionale nel farlo. Non era scontato riuscire nell’impresa.

Il barone è ovviamente una caricatura, tutte le sue idee orrende sono portate all’estremo: infatti, come dicevo, è satira, e pure feroce. Altro che ironia.

Per il barone, la Prussia è inevitabilmente destinata a conquistare il mondo, o almeno l’Europa; l’Inghilterra è un paese chiaramente inferiore e gli inglesi sono dei poveri idioti; la fede luterana è immensamente superiore a quella anglicana e non parliamo poi dei poveri imbecilli cattolici (non ho capito chi parla di antisemitismo: non mi pare che il barone parli mai di ebrei). Ma la cosa più importante e intorno a cui ruota tutta l’essenza del barone: le donne sono così inferiori da non poter essere trattate nemmeno come cani o come oggetti. No, le donne sono schiave (non che il barone pronunci mai questa parola, tanto per lui questo punto di vista è naturale): la cosa migliore che possano fare è stare zitte, non devono in alcun caso esprimere un’opinione (del resto è certo che non siano in grado di averne una), devono obbedire al marito senza fiatare qualunque cosa egli chieda, anzi in certi casi non deve neanche chiedere e loro devono anticipare i suoi desideri. La moglie di von Ottringel è una moglie docile e sottomessa, ma la vacanza inglese la cambia rapidamente e il dovere del barone è quello di rimetterla al suo posto.

Il barone è palesemente innamorato di Frau von Eckthum, la giovane vedova che li ha invitati a partecipare a questa avventura. Frau von Eckthum è la donna perfetta per il barone: è molto bella ed è la donna ideale con cui conversare. Infatti, il barone cerca di passare più tempo possibile con lei parlandole dei suoi punti di vista da maschio alfa e lei risponde sempre e solo “Oh”. Una donna chiaramente perfetta. Perché dal punto di vista del barone questi “Oh” esprimono chiaro assenso e condivisione dei suoi valori; oltretutto la vedova capisce alla perfezione quale siano il suo posto e il suo ruolo e pronuncia il numero massimo di parole consentite a una donna. Oh. Ovviamente Frau von Eckthum non è un’idiota, ma è così a disagio in compagnia del barone che non riesce ad articolare parola.

Ecco, non ho capito come si faccia a vedere questo libro come divertente. Non lo è, se non per alcune situazioni in cui il parossismo del barone è talmente portato all’estremo da avere risultati ridicoli. Ma il ridicolo non è leggerezza, non è ironia, non è divertimento. La satira è altro: certo che a volte fa ridere, se vogliamo fa pure sganasciare dalle risate, ma si ride *di von Ottringel*. Non si ride delle avventure in caravan perché sono simpatiche. C’è chi ha scritto che il barone è insopportabile. Certo che lo è: von Arnim vuole annientare questo tipo di maschio che probabilmente conosce fin troppo bene (è stata sposata per anni con un membro dell’aristocrazia tedesca che ha parodizzato con grazia in altri romanzi, per esempio in Il giardino di Elizabeth).

Fra le molte recensioni che ho letto, mi pare che la stragrande maggioranza sia incline a considerare questo libro una lettura divertente, riuscita o meno. Chi l’ha odiato l’ha trovato noioso (ovvero, non faceva abbastanza ridere) oppure ha odiato il protagonista (non capendo che non c’era nessuna intenzione da parte dell’autrice di farlo sembrare simpatico). L’unica recensione, fra quelle che ho letto, che ha saputo capire il romanzo è questa. Poi, ehi, se tutti la pensano in un modo e solo io in un altro, magari non ho capito un accidenti io. Ma francamente questa mia lettura non scaturisce da una profonda analisi critica, anzi è stata per me l’interpretazione naturale fin dai primi paragrafi del libro.

Detto questo, il mio giudizio è comunque tiepido perché, sebbene io abbia apprezzato enormemente l’intento e abbia trovato l’autrice superba e il libro sostanzialmente eccellente, rimane comunque una lettura pesante perché sentire gli sproloqui del maschio alfa per più di 300 pagine è obiettivamente demoralizzante.

Hannah Kent, Ho lasciato entrare la tempesta

Hannah Kent, Burial Rites, Picador, 2013.

Ho lasciato entrare la tempesta è il titolo scelto da Piemme per la versione italiana, pubblicata nel 2014 e tradotta da Velia Februari. Uno dei pochi esempi in cui la scelta di un titolo che non c’entra niente con l’originale si è rivelata eccellente e perfino migliore dell’originale. Io ho letto il libro in inglese.

Hannah Kent è una scrittrice australiana che nel 2002, a 17 anni, ha trascorso un anno nel nord dell’Islanda come parte di uno scambio scolastico. Qui la giovane Kent ha trovato un paesaggio rurale, spettrale, oscuro e desolato; per i primi tempi si è sentita un’outsider, isolata. Forse proprio per questo quando le hanno raccontato la storia di Agnes Magnusdottir si è sentita attratta e incuriosita da questa donna che sembrava essere un’outsider come lei. Per questo motivo, quando nel 2010 ha dovuto iniziare a pensare alla stesura di un romanzo storico come parte del suo dottorato, le è venuta in mente proprio la storia di Agnes. Tutto questo è l’autrice stessa a raccontarlo nella nota finale, che è una versione condensata di questo articolo. Ho trovato estremamente interessante scoprire quale sia stato il processo che ha portato Kent a scrivere questo libro, tra l’altro l’autrice presenta se stessa in una versione molto “umana”, nel senso che non cede alla tentazione di magnificare se stessa come scrittrice, ma anzi ci fa vedere tutti i suoi difetti e i problemi incontrati nel processo creativo.

Fatta questa premessa, passiamo al romanzo vero e proprio.

Questa è la storia romanzata di un fatto realmente accaduto: nel 1830 Agnus Magnusdottir fu l’ultima persona a essere giustiziata in Islanda. La pena di morte nel paese fu abolita solo nel 1928, quasi un secolo dopo, ma in realtà era sempre stata applicata molto di rado. Agnes Magnusdottir fu condannata a morte per decapitazione, insieme a Fridrik Sigurdsson e Sigridur (Sigga) Gudmundsottir, per l’omicidio di Natan Ketilsson e Petur Jonsson, avvenuto due anni prima. Sigga ricevette la commutazione della pena di morte in ergastolo da scontare in Danimarca (all’epoca l’Islanda era sotto il dominio danese).

Stando alle ricerche condotte da Hannah Kent, Agnes era descritta da tutti come una donna malvagia, ma l’autrice in questo romanzo ha voluto restituire ambiguità al personaggio storico per toglierle la fama di donna orribile. Agnes resta un’assassina, ma i suoi motivi sono ben diversi da quelli che la gente ha scelto di attribuirle. Kent non pretende che questa sia una ricostruzione storica fedele: è semplicemente un romanzo e la sua libera, fantasiosa interpretazione del personaggio.

La scrittura di Kent è eccezionale, molto lirica e poetica, e sembra quasi richiamare i paesaggi aspri e crudeli in cui la storia è ambientata. La vita di Agnes è tragica fin dalla più tenera età, sembra quasi condannata a un’estrema infelicità, senza possibilità di appello, senza poter mitigare la pena. Tutto questo si riflette nel linguaggio e nel tono narrativo. La storia alterna un narratore esterno alla narrazione in prima persona di Agnes.

In attesa dell’esecuzione, Agnes viene posta sotto la custodia di una famiglia di Kornsa, che la accoglie assai malvolentieri. Eppure, al suo arrivo, Margret, la madre di famiglia, mostra un’umanità che non ci si sarebbe aspettati: rimane certo ruvida, ma si accorge subito del modo in cui era stata trattata la criminale fino ad allora, come una bestia, e si adopera per restituirle un minimo di dignità umana. Nel corso del libro assistiamo alla vita quotidiana di Agnes nella fattoria, inclusi i rapporti con la famiglia, composta da madre, padre e due figlie ventenni. Ci viene inoltre raccontata la sua storia, a partire dall’infanzia fino a quella terribile notte a Illugastadir, quando il suo padrone Natan viene ucciso nel sonno insieme all’amico Petur e la casa datta alle fiamme. La verità è un po’ diversa da come viene raccontata dai paesani e dalle autorità. La storia è raccontata da Agnes, spinta alla narrazione dal suo consulente spirituale, l’assistente reverendo Toti.

Kent restituisce l’umanità e la fragilità dei personaggi, nascoste dietro l’asprezza necessaria per sopravvivere al tempo e al luogo. Agnes è una figura a tutto tondo, con una storia vera e tragica alle spalle. Kent non aspira ad assolverla quando a umanizzarla, rendendola così oggetto di umana compassione. Kent sembra dirci: anche un’assassina è un essere umano e la verità potrebbe non essere scolpita nella pietra come le autorità vorrebbero far credere alla popolazione. La figura di Agnes è ambigua, proprio perché è un essere umano e quindi dotata di innumerevoli sfaccettature, che vanno tenute in considerazione per poter comprendere la persona e scinderla dal personaggio che sembra quasi costruito a tavolino per farne un monito per la popolazione.

Di fatto, oltre al resto, questa è anche una condanna della pena di morte. Le ultime pagine del libro, quelle in cui Agnes viene condotta all’esecuzione (direi che non è uno spoiler perché sappiamo che la sua fine è questa), sono estremamente toccanti. Kent non arretra di fronte a nulla: se la sua intenzione è quella di rendere umana Agnes, lo fa fino alla fine. Agnes è una persona come tutte, ha paura, è terrorizzata come lo sarebbe chiunque di fronte al destino che la attende. E questo l’autrice ce lo fa vedere in tutto il suo orrore, nell’immensità della sua sofferenza.

Tutto viene ammantato di religione in questi eventi, si dà grande importanza al ravvedimento finale e al conforto spirituale che però non deve mancare di severità. La religione è il fulcro di tutto. Questa è la giustizia di Dio. Eppure, a un certo punto Agnes riflette con Toti che, se Dio ha detto “non uccidere”, forse la pena di morte non era proprio fra i suoi piani. Forse uccidere una persona per punirla di aver ucciso non è giustizia divina.

Un libro davvero eccellente, sinceramente si fa fatica a credere che sia un libro d’esordio. Del resto Kent ha avuto come mentore Geraldine Brooks.

Se volete approfondire (in inglese), qui Hannah Kent risponde ad alcune domande. Invece qui l’autrice ha messo a disposizione alcune foto da lei scattate in Islanda, così possiamo visualizzare un po’ il contesto, l’ambientazione in cui il romanzo si svolge.

Elizabeth von Arnim, Elizabeth a Rügen

Elizabeth von Arnim, The Adventures of Elizabeth in Rügen, pubblico dominio. Pubblicazione originale 1904.

Il mio incontro con Elizabeth von Arnim è stato casuale, ma questo incontro casuale, che probabilmente non sarebbe mai avvenuto in maniera volontaria, ha fatto nascere un amore solido e duraturo.

Con Elizabeth a Rügen (questo il titolo dell’edizione italiana, pubblicata da Bollati Boringhieri) sono arrivata al settimo libro letto di questa autrice, e ne ho già altri pronti ad aspettarmi. I suoi libri in lingua originale sarebbero disponibili gratuitamente su Project Gutenberg se il sito non fosse stato oscurato in Italia, ma potete comunque trovarli su altri siti che offrono libri di pubblico dominio per il download gratuito.

Elizabeth decide di fare un viaggio sull’isola di Rügen, nel nord della Germania, un luogo molto amato dai turisti. Vorrebbe girarla a piedi, ma non trova amiche disposte ad accompagnarla e, per le convenzioni sociali dell’epoca, andare da sola sarebbe del tutto inaccettabile. Decide così di girarla in carrozza con il fido August e la domestica Gertrud. Il suo intento è quello di scrivere una sorta di guida turistica, ma ben presto il libro finisce per diventare qualcosa di completamente diverso, quando la donna incontra casualmente la cugina Charlotte, che non vedeva da dieci anni. Così alle descrizioni dell’isola, dei villaggi, dei paesaggi e delle locande, si intreccia quella delle avventure vissute insieme a Charlotte.

La massima aspirazione di Elizabeth (in questo come in altri libri dell’autrice) sarebbe quella di trascorrere del tempo in solitudine a godere delle bellezze del paesaggio e, sostanzialmente, a riposarsi dalle fatiche di moglie e madre. Purtroppo Charlotte decide di unirsi a lei e non la lascerà per un minuto. Elizabeth ha inoltre la sfortuna di incontrare una coppia di turisti inglesi composta da una signora, moglie di un vescovo anglicano, e suo figlio Brosy. I due inevitabilmente si attaccano a lei proprio come la cugina, ed ecco che l’agognata tranquillità va a farsi benedire.

Charlotte è un personaggio bizzarro per l’epoca: una donna tedesca che ha studiato a Oxford, un’intellettuale che ha sposato un famoso professore di quarant’anni più anziano, il quale però è più attratto dalla bellezza della giovane moglie che dalle sue capacità intellettive. Soffocata in un matrimonio rivelatosi il contrario di quello che sperava, Charlotte scopre il femminismo e diventa autrice di pamphlet in cui rivendica a gran voce l’emancipazione femminile, pur mostrando enormi contraddizioni nella vita quotidiana. Si trova a Rügen da sola dopo essere praticamente scappata dal marito, e decide così di accompagnare la cugina Elizabeth nel suo viaggio.

Come spesso accade nei libri di questa autrice, grande importanza rivestono le riflessioni argute di Elizabeth, donna che pur sembrando conformarsi alle aspettative della società tedesca dell’epoca, tuttavia risulta più emancipata di quanto si potrebbe pensare, tanto che appunto decide di intraprendere questo viaggio da sola, senza la sua famiglia. Elizabeth vuole tranquillità, vuole stare lontana dalle preoccupazioni quotidiane e godersi un viaggio per conto suo, ma dopo l’incontro con la cugina purtroppo non potrà più farlo.

Il libro è pervaso da una sottile ironia, da molta arguzia, ed è di fatto divertente e dispensatore di molti sorrisi. Molti dei libri di von Arnim sono così. L’umorismo di questa autrice è caratteristico e peculiare, ed è quello che rende tanto godibili i suoi libri, oltre alla supposta leggerezza che però quasi sempre nasconde riflessioni e problematiche più profonde.

I libri di von Arnim, perlomeno quelli che ho letto finora, non sono mai capolavori, ma sono piacevolissimi da leggere e come sempre li consiglio caldamente, anche se so che non tutti li apprezzano, perché purtroppo molti si fermano al piano superficiale e li trovano troppo leggeri. Un approccio che consiglio è quello di guardare oltre la leggerezza e cercare di leggere anche quello che l’autrice non esplicita del tutto; pur senza far diventare preponderante questo tipo di lettura, ma anzi continuando a godere della scrittura lieve di von Arnim.

Elizabeth von Arnim, Uno chalet tutto per me

Elizabeth von Arnim, In the Mountains, pubblico dominio. Pubblicazione originale 1920.

Questo libro, che in inglese è un’opera di pubblico dominio dal titolo In the Mountains scaricabile (ad esempio) da Project Gutenberg, in Italia è stato pubblicato prima da Bollati Boringhieri con il titolo Uno chalet tutto per me tradotto da Simona Garavelli, successivamente da Fazi con il titolo Un’estate in montagna tradotto da Sabina Terziani. Io l’ho letto in originale approfittando della possibilità di scaricarlo gratuitamente.

Di Elizabeth von Arnim avevo già letto altri quattro romanzi e questo libro non fa che confermare l’ottima impressione che ho di questa scrittrice, che secondo me meriterebbe di essere molto più conosciuta.

Questo romanzo è scritto sotto forma di diario, la protagonista e narratrice è una donna inglese di cui sappiamo solo che ha avuto un terribile dolore, ma non sappiamo di che tipo. Non conosciamo neppure il suo nome. Dopo la prima guerra mondiale, questa donna decide di ritirarsi per un periodo nella sua casa sulle Alpi svizzere, che i fedeli coniugi Antoine avevano curato per lei durante la guerra, seppure prendendosi qualche libertà (Madame aveva esplicitamente detto di non volere animali, ma gli Antoine hanno deciso comunque di prendere una mucca e delle galline, per non parlare del terribile maiale, fortunatamente però già ucciso all’arrivo di Madame). In questo ambiente bucolico, la donna pensa di potersi lasciare alle spalle il passato doloroso che non cessa di tormentarla, ma ovviamente non è facile. Scrive il diario per la vecchina che un giorno diventerà, affinché questa lei anziana possa avere una testimonianza di ciò che le è successo da giovane.

La protagonista finisce per annoiarsi e incupirsi sempre più, specie il giorno del suo compleanno, che passerà da sola, ma per fortuna proprio quel giorno compariranno quasi dal nulla due donne inglesi, con cui finirà per legare, invitandole a stare con lei.

Sostanzialmente potremmo dire che questo è un romanzo sull’amicizia, ma in effetti è anche molto più di questo. Moltissime sono le riflessioni sulla solitudine, sulla morale della buona educazione imperante che impone di essere sempre gentili ed educate e, come vedremo, questo porterà a delle situazioni del tutto ridicole. Le tre donne, e in special modo la protagonista e la cinquantenne Mrs. Barnes, cercano di non incomodarsi l’un l’altra, ma mentre la protagonista è uno spirito libero, Mrs. Barnes è rigidamente fedele all’etichetta e soprattutto non vuole essere di disturbo… finendo per esserlo davvero.

Essendo scritto sotto forma di diario, sono molte le riflessioni della protagonista, che come dicevo è uno spirito libero, controcorrente, probabilmente più avanti rispetto all’epoca. Una figura femminile di questo tipo è presente in tutti i romanzi di Elizabeth von Arnim, la quale probabilmente prendeva spunto da se stessa per queste sue protagoniste, essendo lei per prima uno spirito assolutamente anticonformista.

Molto più che negli altri romanzi di von Arnim che ho letto, ho trovato una sottile ironia e umorismo di fondo. Seppure questo aspetto sia presente in tutti i suoi romanzi, in questo si fa ancora più potente e spesso passa prepotentemente in primo piano. Penso che questa sia una delle caratteristiche più interessanti dei romanzi di von Arnim, che li rendono leggeri anche quando, in alcuni casi, la leggerezza serve a mascherare riflessioni più profonde sul conformismo richiesto dalla società inglese dell’epoca e contrastato da protagonista e autrice allo stesso modo.

Ho scoperto questa autrice per puro caso grazie a un ebook regalatomi da Il Libraio, dopodiché ho voluto approfondire la sua conoscenza, e posso assicurarvi che questo mio approfondimento non finirà qui perché questa scrittrice è davvero incantevole.