Madeline Miller, La canzone di Achille

Attenzione: questa recensione contiene SPOILER sulla parte finale. Se non sapete come finisce questo libro, non leggetela.

Chiariamo subito una cosa: La canzone di Achille non è Circe. Ho dato 4 stelle a entrambi ma trovo il secondo molto superiore. Del resto La canzone di Achille è stato il libro di esordio di Madeline Miller ed è normale che la maturità raggiunta nel secondo libro si percepisca.

Questo libro si legge in un soffio, ti cattura davvero e ti fa immergere nelle pagine così tanto da non permetterti di interrompere la lettura. Poi a volte sei costretta a farlo per fare quelle cose insulse tipo dormire, ma è difficile staccarsene.

Ci sono stati dei momenti in cui l’ho trovato un po’ sottotono, ma per contro ci sono dei momenti di poesia altissima. La storia d’amore fra Achille e Patroclo è dolce e ho fatto il tifo per il loro amore tutto il tempo. Qualche recensore ha scritto di non aver gradito il disgusto provato da Teti o da Patroclo stesso per l’omosessualità dei due, ma io credo che il disgusto di Teti fosse non tanto per l’omosessualità del figlio, quanto perché si era innamorato di un misero mortale, per giunta per niente eroico o comunque memorabile o capace di distinguersi per qualcosa. A Teti non importa che Patroclo si distingua per il suo grande cuore e per la sua delicatezza, lei non è una mortale e per lei queste non sono qualità.

La parte che mi è piaciuta di più è stata quella finale, dove secondo me l’autrice si è superata. Ho odiato Achille con tutta me stessa: ha mandato a morte il suo amato Patroclo, ha accettato la sua proposta di travestirsi da Achille e guidare l’esercito alla volta di Troia, pur sapendo benissimo che lo stava condannando a morte. Raccomandargli di non gettarsi nella mischia era più un modo per autoassolversi, secondo me. L’orgoglio l’ha accecato così tanto da indurlo a non vedere a cosa stesse acconsentendo. È vero che ha amato moltissimo Patroclo, quindi Briseide sbaglia quando gli dice che lo ha amato più da morto che da vivo, ma non mi sento comunque di darle torto perché è vero che si è fatto accecare dal suo ridicolo orgoglio. L’ho trovata una parte commovente, ha scatenato in me tantissime emozioni.

Ora dovrei davvero prendere il coraggio a due mani e decidermi a leggere l’Iliade. Dopotutto, è vero che queste opere classiche mi spaventano (non ho fatto studi classici), ma è vero pure che mi è piaciuto molto leggere l’Odissea, quindi perché non provare?

Titolo: La canzone di Achille
Titolo originale: The Song of Achilles
Autrice: Madeline Miller
Traduttori: Matteo Curtoni e Maura Parolini
Casa editrice: Marsilio / Feltrinelli
Pubblicazione originale: 2011
Numero di pagine: 382
Lingua originale: inglese

Italo Svevo, Senilità

Italo Svevo, Senilità, Feltrinelli. Prima pubblicazione 1898.

Dopo una cinquantina di pagine volevo abbandonarlo, invece contrariamente al mio solito ho perseverato e ne sono molto contenta: non credo sia un capolavoro, ma è un libro molto bello.

Forse quando l’ho acquistato, anni fa (addirittura nel mio periodo fiorentino, parliamo di ben più di 10 anni fa!), sapevo di cosa parlasse, ma ora mi sono approcciata a questo romanzo non ricordando più niente della trama o dell’argomento. Quindi all’inizio ho pensato che il “leggero” fra i due fosse Emilio Brentani e non Angiolina, dato che non perde l’occasione di sottolineare che per lui è un’avventura e che non si vuole impegnare. Invece ben presto scopriamo che è proprio il contrario.

Emilio, che è forse un alter ego dell’autore (un impiegato-letterato), si innamora perdutamente, ma con un senso di possesso che ci fa pensare a tanti personaggi che troppo spesso salgono all’onore delle cronache. Emilio, sostanzialmente, non ama: Emilio vuole possedere, e basta. Angiolina è di sua proprietà. Lei però è una donna molto libera e anche libertina, in questo Svevo tratteggia un personaggio che a noi lettori del ventunesimo secolo sembra più moderno/contemporaneo che una donna di fine Ottocento. Ma lo fa per godersi la vita o si vende per bisogno? Probabilmente entrambe le cose.

È un romanzo in cui “non succede niente”, ma l’esplorazione psicologica del carattere di Emilio è eccezionale, e non ci si poteva aspettare di meno da Svevo. Molto bella la parte finale, in cui vediamo tutta l’ossessione di Emilio: nonostante la sorella Amalia sia in punto di morte, questi non rinuncia a vedere Angiolina, anzi in alcuni momenti ha in mente più lei che Amalia. Inoltre, si rende conto di non essersi accorto di tante cose riguardanti la sorella, in particolare non sa quando si sia ammalata: preso dall’ossessione passionale per Angiolina, ha visto veramente Amalia negli ultimi tempi?

Davvero bello.

Nagib Mahfuz, Il ladro e i cani

Nagib Mahfuz, Il ladro e i cani (tit. originale Al-Liss wa-l-kilāb), Feltrinelli 1997. Traduzione dall’arabo di Valentina Colombo.

È il secondo libro che leggo di Mahfuz e continuo a non essere convinta da questo autore. Per carità, si vede che è bravo e probabilmente si sarà meritato il Nobel per la letteratura (chi sono io per dire il contrario?), ma non mi appassiona. Colpa anche di una traduzione che suona artificiosa e non priva di errori di italiano (“i bricioli”????).

La scrittura è veramente particolare, Mahfuz passa dalla terza alla seconda alla prima persona singolare anche all’interno dello stesso paragrafo. Sebbene si riesca a entrare subito nello spirito di questo tipo di narrazione, è comunque straniante. Non dico che sia di difficile lettura, semplicemente spiazza e non posso dire di capire davvero questa scelta.

La storia è quella di Said (il ladro), che dopo quattro anni esce di prigione e decide di vendicarsi di coloro che l’hanno tradito (i cani). Queste tre persone lo hanno tradito mandandolo in prigione con una soffiata alla polizia e, nel caso della moglie, chiedendo il divorzio e sposandosi con uno dei due “cani”, che era stato in precedenza un fido aiutante di Said. La conseguenza è che Sana’, la figlia seienne di Said, non riconosce più il padre essendo stata troppo piccola quando l’uomo è andato in prigione, e perciò lo rifiuta piangendo. Said decide dunque di uccidere i “cani”, ma il fato non è dalla sua parte…

Il libro si presta anche a interpretazioni metafisiche e filosofiche, che io però non sono in grado di fare e quindi lascio a chi meglio di me si occupa di recensire e fare critica letteraria (io mi limito a commentare le mie letture, senza pretese).

Penso che questo autore non faccia per me.

Doris Lessing, Gatti molto speciali

Doris Lessing, Gatti molto speciali (tit. originale Particularly Cats), Feltrinelli, Milano 2017. Traduzione di Maria Antonietta Saracino.

Doris Lessing con questo libro, pubblicato originariamente nel 1967, ci regala un inno d’amore ai gatti. Impreziosito in questa nuova edizione Feltrinelli dalle bellissime illustrazioni della catalana Joana Santamans.

Per qualche motivo pensavo che si trattasse di un romanzo, mentre invece l’autrice narra le storie dei gatti che ha realmente avuto nella sua vita.

Premio Nobel per la Letteratura nel 2007, Doris Lessing è nata in Persia e cresciuta in Rhodesia, oggi Zimbabwe.

I primi gatti della sua vita sono proprio quelli che ha avuto o da cui è stata circondata nell’infanzia in Africa. Gatti selvatici e gatti domestici, a volte, ma non sempre, inselvatichiti. La madre dell’autrice era addetta all’eliminazione dei gatti “di troppo”, perché altrimenti la famiglia sarebbe stata sommersa dai gatti. Non so infatti se fosse tipico dell’epoca, ma quasi tutti i gatti di Lessing non sono stati sterilizzati e hanno perciò sfornato innumerevoli gattini, che il più delle volte era impossibile tenere e quindi venivano dati via o, come in Africa e una volta anche nel Regno Unito (dove la scrittrice ha trascorso la sua vita adulta), soppressi, sebbene a malincuore.

Protagoniste indiscusse di questo libro sono la gatta grigia e la gatta nera (nessuno dei gatti di Lessing ha un nome), ovvero le due gatte che l’autrice ha ancora con sé al momento in cui scrive il libro. Tuttavia non sono certo le uniche e, se le prime pagine, popolate di gatti africani, sono molto dure a causa degli innumerevoli gatti uccisi, le ultime, in cui si narra di una gatta avuta in precedenza, sempre in Inghilterra, sono molto belle e toccanti. Le storie che hanno per protagoniste la gatta grigia e la gatta nera sono a volte divertenti, a volte tenere, a volte crudeli, sempre deliziose.

È un libro senza pretese, il cui unico intento è celebrare la figura del gatto. Piacerà molto agli appassionati di gatti, ma ho qualche dubbio che possa far innamorare dei gatti chi non li ama già, perché l’autrice non fa mistero dei difetti di questi animali. Tuttavia per gli amanti dei gatti è una lettura praticamente obbligatoria.

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi – 1923

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi (tit. originale Duineser Elegien), Feltrinelli, Milano 2006. Traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien. Anno di pubblicazione originale 1923.

Come ho detto mille volte, non sono capace di recensire poesia. In particolare, avevo letto parti di questo libro anni fa, forse per qualche esame di letteratura tedesca o forse per altri motivi che non ricordo, e ora l’ho ripreso in mano perché avevo piacere di leggerlo dall’inizio alla fine. È stata una lettura faticosissima, le note sono pochissime e, soprattutto, manca un apparato critico che per testi di una tale complessità è secondo me indispensabile. Io non so niente di poesia, per quanto sappia forse qualcosa (ma assolutamente non abbastanza) di letteratura tedesca. Per questo motivo ho avuto molte difficoltà a capire questo testo. Nell’avvertenza i due traduttori lamentano il fatto che le Elegie duinesi siano spesso lette per la loro bellezza poetica e che ne vengano conseguentemente ricordati solo alcuni passaggi, i più famosi. Beh, proprio per questo avrei davvero gradito un’introduzione, un commento all’opera, qualcosa che mi spiegasse cosa stavo leggendo. In mancanza di questo, anche io non potrò che ricordare alcuni passaggi di queste elegie.

Vi riporto dunque parte della decima e ultima elegia, secondo me la più bella.

[…]

Più avanti ancora è tratto l’adolescente; ama
forse una giovane Dolente…… La segue nei prati. Lei dice:
– Lontano. Noi abitiamo là fuori… Dove? E l’adolescente
la segue. Lo commuove il portamento. La spalla, il collo –, forse
è di splendida origine. Ma lui la lascia, va indietro,
si gira, accenna… Che è mai? È una Dolente.

Solo i giovani morti, nel primo stato
di tranquillità senza tempo, nel disabituarsi,
volentieri la seguono. Fanciulle,
le aspetta e se le amica. Mostra a loro
lieve ciò che ha su di sé. Perle del soffrire e i fini
veli dell’indulgenza. – Con adolescenti cammina
in silenzio.

Ma là dove abitano, nella valle, una Dolente più anziana
si prende cura dell’adolescente, quando lui chiede. – Eravamo,
lei dice, una grande stirpe, una volta, noi Dolenti. I padri
facevano là i minatori nella grande montagna; dagli uomini
trovi, talvolta, un pezzo levigato di primordiale dolore,
oppure ira d’antico vulcano, pietrificata a scorie.
Sì, questo veniva da là. Ricchi una volta eravamo. –

E lo guida leggiero nell’ampio paesaggio delle Dolenti,
gli mostra le colonne dei templi o le rovine
di quelle rocche, da dove i loro principi dolenti
dominavano saggi un tempo il paese. Gli mostra
i grandi alberi di lacrime e campi di mestizia in fiore,
(viventi li conoscono solo come mite fogliame);
gli mostra al pascolo gli animali del lutto, – e a volte
un uccello spaventa, e piatto volando
traverso il loro sguardo, trae lontano
l’immagine scritta del suo grido solitario. –
La sera lo guida ai sepolcri degli avi
dalla stirpe dolente, le sibille e gli ammonitori.
Ma se notte si avvicina camminano più piano,
e presto si fa luna, il monumento funebre
che su tutto vigila. Fratello all’altro sul Nilo,
la Sfinge maestosa: – della segreta camera
volto.
Ed essi si meravigliano alla testa coronale, che per sempre,
tacendo, ha posto il volto degli uomini
sulla bilancia delle stelle.

La vista di lui non lo coglie, nella vertigine
del giovane morto. Ma lo sguardo di lei,
dall’orlo dello pschent, fa sfuggire la civetta. Ed essa
sfiorando in una lenta carezza la guancia,
là dov’è più rotonda, disegna dolcemente nel nuovo
udito da morto sopra un foglio due volte aperto
l’indescrivibile contorno.

E più in alto le stelle. Nuove. Le stelle del paese del dolore.
La Dolente le nomina adagio: – qui,
vedi: il Cavaliere, la Verga, e la costellazione più colma
la chiamano: Ghirlanda di frutta. Poi, avanti, verso il polo:
CullaCamminoIl Libro brucianteMarionettaFinestra.
Ma nel cielo del Sud, puro come nel palmo
di una mano benedetta, la chiara splendente “M”,
che significa le Madri…… –

Ma il morto deve andarsene, e tacendo lo porta
la Dolente più anziana sino alla gola della valle,
dove scintilla nella luce lunare:
la fonte della gioia. Reverente
la nomina, dice: – Tra gli uomini
è un grande fiume trascinante. –

Stanno ai piedi del monte.
E lei qui lo abbraccia, piangendo.

Da solo si incammina nei monti del dolore primordiale.
E per la sorte muta neppure il suo passo risuona.

[…]