Caryl Phillips, The Final Passage, faber and faber, 1985.
La prima parte di questo libro si intitola “The End”. Pensavo che la storia partisse dalla fine per poi proseguire a ritroso, ma avvicinandomi alla fine del libro ho capito che il senso era un altro.
La storia si svolge intorno alla fine degli anni Cinquanta, quando le Indie Occidentali fanno ancora parte dell’Impero britannico. Leila è con il figlioletto Calvin al porto, in fila per salire sulla nave che li porterà in Inghilterra. Sta aspettando suo marito Michael, che però tarda ad arrivare. Quando arriva salgono sulla nave che salperà poi alla volta della madrepatria. Da qui la narrazione procede fra vari balzi indietro, non è del tutto lineare ma questo non la rende difficile da seguire.
È la storia di Leila, che ho immaginato come una donna matura appena l’ho incontrata, solo per poi scoprire che ha appena 19 anni. Leila vive su un’isola delle Indie Occidentali insieme al figlio Calvin, che a giudicare da quello che viene raccontato dovrebbe avere pochi mesi, forse al massimo un anno (l’età precisa non viene mai menzionata). È sposata con Michael, ma non vivono insieme: già la sera delle nozze lui le ha sputato in faccia e se n’è andato. Michael è un perdigiorno, uno scansafatiche a cui piace solo bere e che preferibilmente non farebbe niente nella vita, a parte forse sedurre le donne, ma anche questo non è chiaro. Già da tempo ha una relazione con Beverley, dalla quale ha avuto un figlio: Beverley aveva aspettato per anni che il marito, emigrato negli Stati Uniti, le scrivesse di raggiungerlo, ma questo non è mai accaduto e così ha instaurato una sorta di relazione con Michael. Tuttavia questo non ha impedito a Michael di corteggiare e poi sposare Leila, con la quale non ha però mai, assolutamente mai avuto un vero rapporto di tipo affettivo. Leila è sempre lasciata da parte, dal giorno stesso delle nozze. Ma questo non significa che Michael ami Beverley. Michael non ama nessuno, se non se stesso, e anche questo è dubbio.
Il libro è fatto di immensi silenzi: Michael che va a casa di Beverley e mangia chino sul piatto senza parlare, Beverley che senza parlare gli porge il piatto con la cena, Leila che senza parlare accetta tutto quello che Michael fa. Sembrano tutti dei personaggi senza vita, in particolare Leila pare priva di emozioni, anche se è chiaro che non è così. Come dirà verso la fine del libro, Leila vive nella rassegnazione e nell’attesa. La rassegnazione è una delle protagoniste principali del romanzo, infatti. Capisco poi che Leila abbia l’impressione di essere in costante attesa, ma di fatto (cosa che lei stessa sa benissimo) la sua è un’attesa disperata, un’attesa di qualcosa che non arriverà mai.
La disperazione, cupissima e totale, è la cifra principale di questo romanzo. Non c’è un singolo spiraglio di luce in tutto il libro, mai.
L’unico personaggio che porta un po’ di colore e di vita è Millie, l’amica coetanea di Leila. Sedotta da Bradeth, rimane incinta ma lui rifiuta di sposarla, tuttavia fa coppia con lei a tutti gli effetti. Sono gli unici due personaggi un po’ vitali, gli unici che danno l’impressione di essere umani. Gli altri sembrano automi, ma sono stati resi così dalla disperazione.
Leila vive con il figlio e la madre che, nonostante i suoi appena 40 anni, è malata e passa gran parte del tempo a letto. Una mattina Leila si sveglia e al posto della madre trova una lettera, in cui la donna le annuncia di essere partita per l’Inghilterra in cerca di cure migliori. Successivamente Leila decide di seguirla e Michael, cacciato di casa da Beverley dopo l’ennesima umiliazione che le ha fatto subire, decide di andare con lei.
L’Inghilterra è un po’ la terra promessa, dove gli abitanti dell’isola sono convinti di poter trovare un posto migliore, un lavoro, la ricchezza, una vita lontana dalla monotonia e dalla prevedibilità. Invece, l’Inghilterra degli anni Cinquanta è un posto ostile: ha creato un impero ma non vuole saperne delle persone che ha colonizzato, le case espongono cartelli dove scrivono che non si affitta ai “coloureds”, e se non li espongono è solo per ipocrisia, perché di fatto nessuno vuole affittare ai non bianchi. Perciò ci si deve arrangiare: gli uomini soli in case fatiscenti in cui si abita in tantissimi, le famiglie come Leila, Michael e Calvin in case ancor più fatiscenti che nemmeno un topo di fogna oserebbe chiamare “casa”. Il lavoro, se c’è, è solo di infimo livello, l’ostilità è enorme. Per fortuna Leila ha una vicina di casa ansiosa di aiutarla e con cui nasce un’amicizia.
Tuttavia, questa amicizia non deve far sperare: come dicevo, non c’è nessuno spiraglio, mai. La disperazione regna sovrana e sembra non ci sia alcun modo di uscirne. Leila non aveva sogni neanche sull’isola, era già rassegnata, ma se pure avesse avuto qualche speranza, l’impatto con la realtà trovata in Inghilterra spazzerà via ogni sia pur minima speranza di miglioramento. Alla fine non resta che la sopravvivenza, ma non sempre. Nel caso di Leila, forse, resta solo la follia: sebbene la conclusione del romanzo rimanga vaga sulla questione, a me pare che non possa essere interpretata in altro modo.
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Il libro purtroppo non è stato tradotto in italiano, nonostante la cupezza penso che meriti davvero di essere letto, è una descrizione perfetta di tematiche come la solitudine, la rassegnazione, la disillusione, i sogni infranti, il colonialismo, l’emigrazione…
Caryl Phillips viene considerato uno dei più importanti scrittori della sua generazione. Nato nel 1958 a Saint Kitts e Nevis, nei Caraibi, a soli quattro mesi si trasferisce con la famiglia in Inghilterra, dove nel corso degli anni diventerà un affermato scrittore, sceneggiatore e professore universitario. Uno dei temi a lui più cari è quello della diaspora africana.
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Per l’uso del termine “coloured” (negli Stati Uniti e nel Regno Unito) potete leggere qui, mentre questo articolo della BBC vi spiega perché non è una buona idea usare questa parola. La questione del linguaggio relativo all’appartenenza razziale ed etnica è complessa, nei paesi di lingua inglese raggiunge gradi di complessità inenarrabili, e secondo me è difficile da comprendere se non si vive in quei posti. Già per me parlare di appartenenza “razziale” è abbastanza shockante, nel senso che dal mio modesto punto di vista la razza è una, ed è quella umana. Tuttavia non è così ovunque, per esempio qui c’è un’interessante pagina sulla situazione statunitense. La questione è strettamente connessa alla cultura del paese preso in considerazione: non si può pensare che il punto di vista sull’argomento sia lo stesso in un paese dal passato fascista che ha partorito le leggi razziali, come l’Italia, e in un paese in cui un’amplissima fetta della popolazione discende dagli schiavi e in cui la schiavitù e la segregazione razziale sono state abolite solo pochissimo tempo fa, come gli Stati Uniti. Altro ancora è il discorso per un paese dal passato coloniale, come il Regno Unito, e così via, in ogni paese la questione poggia su basi diverse e non è facile da comprendere per chi in quel paese non ha mai vissuto. Si potrebbero scrivere fiumi di parole sull’argomento, ma questa vuole essere solo una breve nota a margine.
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