Vicente Aleixandre, Spade come labbra (tit. originale Espadas como labios), Guanda, 1977. Traduzione di Sebastiano Grasso. Pubblicazione originale 1932.
Vicente Aleixandre, nato a Siviglia nel 1898, riceve il Premio Nobel per la Letteratura nel 1977 e, guarda un po’, è proprio in quell’anno che Guanda pubblica questa raccolta di poesie. Si tratta del secondo libro del poeta, pubblicato originariamente nel 1932, a cui farà seguito, tre anni dopo, La distruzione o amore. Ho letto quest’ultimo non molti anni fa e l’ho amato molto, nonostante la mia “fase” di letture poetiche fosse già passata da diverso tempo. Perciò mi sono approcciata a Spade come labbra con tranquillità e certezza che lo avrei apprezzato quanto l’altro.
Purtroppo non è andata così. Forse, man mano che passano gli anni, la mia capacità di apprezzare la poesia diminuisce sempre più, dato che le mie letture di questo genere diventano sempre più rare. Forse piano piano si perde la capacità di amare il verso poetico, o almeno a me succede così, evidentemente. Sta di fatto che non ho apprezzato questa raccolta di liriche profondamente surrealiste, dalle immagini (per me) complesse e difficili da comprendere per un profano della poesia. Forse avrei dovuto avere una cultura letteraria molto più vasta e approfondita. Perché, se è vero che ho studiato Letterature all’università, è vero anche che non ho studiato Letteratura Spagnola, ed è altrettanto vero che l’unico esame in cui io sia stata bocciata in tutta la mia carriera universitaria è stato quello di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea dove il corso monografico era incentrato esclusivamente sulla poesia. Insomma, non credo di avere gli strumenti. Non credo che questo sia un tipo di poesia che parla al cuore facendosi apprezzare anche da chi è a digiuno di critica letteraria.
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La mia voce
Sono nato una notte d’estate
fra due pause. Parlami: ti ascolto.
Sono nato. Se tu vedessi che agonia
rappresenta la luna senza sforzo.
Sono nato. Il tuo nome era la felicità;
sotto un fulgore una speranza, un uccello.
Giungere, arrivare. Il mare era un palpito,
il cavo di una mano, una medaglia tiepida.
Allora sono già possibili le luci, le carezze, la pelle, l’orizzonte,
quel sussurrare parole senza senso
che ruotano come orecchi, conchiglie,
come un lobo aperto che albeggia
(ascolta, ascolta) tra la luce calpestata.