Léopold Sédar Senghor, Poesie dell’Africa (Senegal)

Léopold Sédar Senghor, Poesie dell’Africa, Giovane Africa Edizioni, 2013. Traduttore non indicato.

Léopold Sédar Senghor è stato il primo presidente del Senegal ed è rimasto in carica dal 1960 al 1980. Per quanto sia una figura unanimemente osannata, mi pare che abbia pure degli aspetti quantomeno controversi, dal momento che nel 1963, in seguito a un fallito tentativo di colpo di stato, proclamò fuorilegge tutti i partiti ad eccezione del suo, per poi riammetterli soltanto tredici anni dopo.

Viene tuttavia considerato uno dei maggiori scrittori africani del XX secolo e ha partecipato grandemente alla promozione della cultura africana e francofona. È stato uno dei promotori della Francophonie, l’organizzazione fondata nel 1970 per riunire tutte le nazioni in cui la lingua francese è la lingua ufficiale o anche solo utilizzata abitualmente.

Ma è famoso soprattutto per essere stato uno dei maggiori esponenti e ispiratori del movimento culturale della négritude (negritudine), volto all’affrancamento della cultura africana che non deve più essere asservita al colonialismo francese, ma affermare con forza la propria individualità. Seppure all’apparenza un movimento di liberazione o, come ha scritto Sartre, di «negazione della negazione dell’uomo nero», non sono mancate le critiche da parte di autori africani come ad esempio Wole Soyinka, che hanno accusato il movimento di voler affermare qualcosa che non necessitava di affermazione, finendo così per confermare gli stereotipi coloniali sulla cultura africana. Soyinka ha affermato che «La tigre non proclama la sua “tigritudine”. Essa assale la sua preda e la divora.»

Senghor ha scritto numerose poesie, alcune delle quali sono raccolte in questo volumetto che però non mi ha lasciato particolarmente soddisfatta. Innanzitutto, capisco che questo libro sia stato pubblicato con l’intento primario di far conoscere l’opera di Senghor, rappresentante di spicco della letteratura senegalese, ma la poca cura secondo me non rende un buon servizio all’autore. Ci sono numerosi refusi che a volte rendono difficile comprendere quale sia la parola che si voleva utilizzare e inoltre in appendice viene riportata parte di un discorso tenuto da Senghor, con il quale si vuole illustrare il concetto di negritudine. Nulla di male in questo, anzi l’ho trovata un’ottima idea: peccato che venga presentato come discorso tenuto «in occasione del conferimento del Titolo di Presidente dell’Accadémie [sic] Française nel 1983». Ecco, se io non mi fossi presa la briga di controllare (mi era sembrato strano che un africano fosse eletto alla presidenza di un’istituzione monolitica come l’Académie Française, per giunta negli anni Ottanta), avrei dato per buona un’affermazione che invece è falsa: Senghor fu il primo africano eletto all’Académie, ma non ne fu mai presidente. Credo che indorare la sua carriera accademica non renda un buon servizio a nessuno, dal momento che comunque non aveva alcun bisogno di essere abbellita essendo già straordinaria di suo.

Detto questo, le poesie non mi hanno particolarmente colpito, forse anche perché non sono una grande appassionata del genere, oppure perché la traduzione non era ottima, non so. Resta comunque una lettura discretamente interessante. Qui potete leggere la prima poesia della raccolta.

Vicente Aleixandre, Spade come labbra – 1932

Vicente Aleixandre, Spade come labbra (tit. originale Espadas como labios), Guanda, 1977. Traduzione di Sebastiano Grasso. Pubblicazione originale 1932.

Vicente Aleixandre, nato a Siviglia nel 1898, riceve il Premio Nobel per la Letteratura nel 1977 e, guarda un po’, è proprio in quell’anno che Guanda pubblica questa raccolta di poesie. Si tratta del secondo libro del poeta, pubblicato originariamente nel 1932, a cui farà seguito, tre anni dopo, La distruzione o amore. Ho letto quest’ultimo non molti anni fa e l’ho amato molto, nonostante la mia “fase” di letture poetiche fosse già passata da diverso tempo. Perciò mi sono approcciata a Spade come labbra con tranquillità e certezza che lo avrei apprezzato quanto l’altro.

Purtroppo non è andata così. Forse, man mano che passano gli anni, la mia capacità di apprezzare la poesia diminuisce sempre più, dato che le mie letture di questo genere diventano sempre più rare. Forse piano piano si perde la capacità di amare il verso poetico, o almeno a me succede così, evidentemente. Sta di fatto che non ho apprezzato questa raccolta di liriche profondamente surrealiste, dalle immagini (per me) complesse e difficili da comprendere per un profano della poesia. Forse avrei dovuto avere una cultura letteraria molto più vasta e approfondita. Perché, se è vero che ho studiato Letterature all’università, è vero anche che non ho studiato Letteratura Spagnola, ed è altrettanto vero che l’unico esame in cui io sia stata bocciata in tutta la mia carriera universitaria è stato quello di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea dove il corso monografico era incentrato esclusivamente sulla poesia. Insomma, non credo di avere gli strumenti. Non credo che questo sia un tipo di poesia che parla al cuore facendosi apprezzare anche da chi è a digiuno di critica letteraria.

*

La mia voce

Sono nato una notte d’estate
fra due pause. Parlami: ti ascolto.
Sono nato. Se tu vedessi che agonia
rappresenta la luna senza sforzo.
Sono nato. Il tuo nome era la felicità;
sotto un fulgore una speranza, un uccello.
Giungere, arrivare. Il mare era un palpito,
il cavo di una mano, una medaglia tiepida.
Allora sono già possibili le luci, le carezze, la pelle, l’orizzonte,
quel sussurrare parole senza senso
che ruotano come orecchi, conchiglie,
come un lobo aperto che albeggia
(ascolta, ascolta) tra la luce calpestata.

Salim Abu Dschumhur, Luftballonspiele (Emirati Arabi Uniti)

Salim Abu Dschumhur, Luftballonspiele (tit. originale Mala’ibu I-balun), Lisan, Basel 2011. Traduzione dall’arabo di Andreas Herdt.

Questo libro mi fu regalato molti anni fa alla Fiera del Libro di Francoforte, insieme ad altri tre libriccini di altri tre poeti degli Emirati Arabi Uniti, ma solo ora ho trovato l’occasione di leggerlo.

L’autore è un ex militare che, una volta in pensione (è in pensione, anche se è nato soltanto nel 1962), si è dedicato alla poesia. I risultati, nonostante io fossi prevenuta verso questo militare scopertosi poeta, sono buoni.

L’autore usa la scusa dei palloncini per parlare di varie storie in poesia. I palloncini, da intendersi proprio come quelli gonfiabili con cui giocano i bambini lasciandoli volare in aria, non sono i protagonisti di queste poesie se non in rari casi, ma fanno un po’ la parte dei comprimari e comunque compaiono in tutte le poesie, in un ruolo o nell’altro.

Le poesie sono realmente storie, infatti nella traduzione tedesca sono scritte in verso libero e non c’è alcun tipo di musicalità, se non a volte nelle immagini. Ignoro ovviamente quale fosse l’effetto strettamente poetico nell’originale arabo. Questo tuttavia non significa che non siano dei bei versi, anzi proprio il contrario.

Le storie narrate sono di fuga dalla guerra, di quotidianità, di bambini, di spaccati di società. È una piccola raccolta (63 pagine) tutt’altro che banale, ma anzi piacevole da leggere.

La casa editrice è una piccola casa svizzera di Basilea che si occupa di poesia araba e in particolare ha pubblicato svariati libriccini di autori degli Emirati Arabi Uniti. Credo che pubblichi anche una rivista dedicata alla letteratura araba. Purtroppo tutto questo soltanto in tedesco.

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi – 1923

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi (tit. originale Duineser Elegien), Feltrinelli, Milano 2006. Traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien. Anno di pubblicazione originale 1923.

Come ho detto mille volte, non sono capace di recensire poesia. In particolare, avevo letto parti di questo libro anni fa, forse per qualche esame di letteratura tedesca o forse per altri motivi che non ricordo, e ora l’ho ripreso in mano perché avevo piacere di leggerlo dall’inizio alla fine. È stata una lettura faticosissima, le note sono pochissime e, soprattutto, manca un apparato critico che per testi di una tale complessità è secondo me indispensabile. Io non so niente di poesia, per quanto sappia forse qualcosa (ma assolutamente non abbastanza) di letteratura tedesca. Per questo motivo ho avuto molte difficoltà a capire questo testo. Nell’avvertenza i due traduttori lamentano il fatto che le Elegie duinesi siano spesso lette per la loro bellezza poetica e che ne vengano conseguentemente ricordati solo alcuni passaggi, i più famosi. Beh, proprio per questo avrei davvero gradito un’introduzione, un commento all’opera, qualcosa che mi spiegasse cosa stavo leggendo. In mancanza di questo, anche io non potrò che ricordare alcuni passaggi di queste elegie.

Vi riporto dunque parte della decima e ultima elegia, secondo me la più bella.

[…]

Più avanti ancora è tratto l’adolescente; ama
forse una giovane Dolente…… La segue nei prati. Lei dice:
– Lontano. Noi abitiamo là fuori… Dove? E l’adolescente
la segue. Lo commuove il portamento. La spalla, il collo –, forse
è di splendida origine. Ma lui la lascia, va indietro,
si gira, accenna… Che è mai? È una Dolente.

Solo i giovani morti, nel primo stato
di tranquillità senza tempo, nel disabituarsi,
volentieri la seguono. Fanciulle,
le aspetta e se le amica. Mostra a loro
lieve ciò che ha su di sé. Perle del soffrire e i fini
veli dell’indulgenza. – Con adolescenti cammina
in silenzio.

Ma là dove abitano, nella valle, una Dolente più anziana
si prende cura dell’adolescente, quando lui chiede. – Eravamo,
lei dice, una grande stirpe, una volta, noi Dolenti. I padri
facevano là i minatori nella grande montagna; dagli uomini
trovi, talvolta, un pezzo levigato di primordiale dolore,
oppure ira d’antico vulcano, pietrificata a scorie.
Sì, questo veniva da là. Ricchi una volta eravamo. –

E lo guida leggiero nell’ampio paesaggio delle Dolenti,
gli mostra le colonne dei templi o le rovine
di quelle rocche, da dove i loro principi dolenti
dominavano saggi un tempo il paese. Gli mostra
i grandi alberi di lacrime e campi di mestizia in fiore,
(viventi li conoscono solo come mite fogliame);
gli mostra al pascolo gli animali del lutto, – e a volte
un uccello spaventa, e piatto volando
traverso il loro sguardo, trae lontano
l’immagine scritta del suo grido solitario. –
La sera lo guida ai sepolcri degli avi
dalla stirpe dolente, le sibille e gli ammonitori.
Ma se notte si avvicina camminano più piano,
e presto si fa luna, il monumento funebre
che su tutto vigila. Fratello all’altro sul Nilo,
la Sfinge maestosa: – della segreta camera
volto.
Ed essi si meravigliano alla testa coronale, che per sempre,
tacendo, ha posto il volto degli uomini
sulla bilancia delle stelle.

La vista di lui non lo coglie, nella vertigine
del giovane morto. Ma lo sguardo di lei,
dall’orlo dello pschent, fa sfuggire la civetta. Ed essa
sfiorando in una lenta carezza la guancia,
là dov’è più rotonda, disegna dolcemente nel nuovo
udito da morto sopra un foglio due volte aperto
l’indescrivibile contorno.

E più in alto le stelle. Nuove. Le stelle del paese del dolore.
La Dolente le nomina adagio: – qui,
vedi: il Cavaliere, la Verga, e la costellazione più colma
la chiamano: Ghirlanda di frutta. Poi, avanti, verso il polo:
CullaCamminoIl Libro brucianteMarionettaFinestra.
Ma nel cielo del Sud, puro come nel palmo
di una mano benedetta, la chiara splendente “M”,
che significa le Madri…… –

Ma il morto deve andarsene, e tacendo lo porta
la Dolente più anziana sino alla gola della valle,
dove scintilla nella luce lunare:
la fonte della gioia. Reverente
la nomina, dice: – Tra gli uomini
è un grande fiume trascinante. –

Stanno ai piedi del monte.
E lei qui lo abbraccia, piangendo.

Da solo si incammina nei monti del dolore primordiale.
E per la sorte muta neppure il suo passo risuona.

[…]

Golan Haji, L’autunno, qui, è magico e immenso (Siria)

Golan Haji, L’autunno, qui, è magico e immenso (tit. originale al-Kharīf, hunà, sāḥr wa kabīr), il Sirente, Fagnano Alto 2013. Traduzione dall’arabo di Patrizia Zanelli.

Attratta dal titolo meraviglioso, qualche anno fa ho comprato questo libro alla fiera Più libri più liberi, ma non lo avevo ancora letto. Diciamo subito che il titolo è la parte più bella del libro.

Questo libro è una raccolta di diciotto poesie con testo a fronte in arabo. Un libro molto elegante, il mio primo incontro con la casa editrice abruzzese il Sirente, che pubblica soprattutto, ma non solo, testi dedicati al mondo arabo e libri di autori di lingua araba. Un progetto molto interessante che vorrei approfondire leggendo altri libri dell’editore.

Golan Haji è un poeta curdo siriano, nato nel 1977 ad Amouda nel nord della Siria, da cui è fuggito nel 2011. La sua lingua madre è il curdo ma scrive in arabo. Oltre che poeta è traduttore e di professione fa il patologo.

Le sue poesie sono belle, ma piene di quel vero e proprio linguaggio poetico ricco di metafore e figure retoriche che a me personalmente rende un po’ noiosa la lettura. Direte, è naturale che le poesie siano scritte in un linguaggio poetico, e avete senz’altro ragione, ma il problema è che da molti anni leggo pochissima poesia, per averne letta troppa in passato e non sempre volontariamente. Perciò oggi lo confesso: a me la poesia risulta ostica, e certamente tale l’ho trovata in questo caso. Penso che piacerà ai poeti o a quelli che di poesia si intendono, ma se la poesia non è il vostro pane quotidiano potreste fare fatica, proprio come me.

Come avrete notato questa non è una recensione, solo un brevissimo commento al libro, perché come sempre io mi ritengo incapace di recensire la poesia, tranne alcune rarissime eccezioni. Farò dunque parlare la poesia stessa, con un estratto da “Un soldato in casa di cura”:

Gli ho chiesto tregua mentre mi invadevano
per tapparmi la bocca con le cinture di cuoio,
sicché l’urlo m’è tornato in gola
distruggendo quel che mi restava da dire.
Mi svegliano le braccia anchilosate,
per quanto ci avevo dormito sopra,
e vedo tutti quelli che mi fissavano, poc’anzi.
L’aria viene lacerata,
come la mia bocca, ma non sento niente.
Fisso un punto nel bianco sporco,
che poi si trasforma in un occhio che mi fissa,
e ovunque mi guardi mi vedo moltiplicare.
Gli sguardi mi divorano,
mentre di me non rimane
che una pelle così sottile che,
se solo la sfiorassi, sparirei.
Io sono il pane degli invisibili.
Quanto mi terrorizzano gli occhi degli atterriti!
Ogni spavento ne spaventa un altro.