Elie Wiesel, La notte

Elie Wiesel, La notte (tit. originale La nuit), Giuntina, Firenze 1980. Traduzione di Daniel Vogelmann.

La storia di questo libro è travagliata, e potete leggerla su Wikipedia, dove peraltro l’ho scoperta anch’io, visto che non ne avevo mai sentito parlare. Per molti anni Elie Wiesel (premio Nobel per la Pace nel 1986), si è rifiutato di parlare della sua esperienza nei campi di concentramento di Auschwitz, Birkenau, Buna e Buchenwald, tra il 1944 e il 1945. Nel 1954, tuttavia, scrisse in yiddish un libro di oltre 800 pagine, Un di Velt Hot Geshvign (“E il mondo rimase in silenzio”), che fu pubblicato, sensibilmente ridotto e tagliato, a Buenos Aires senza successo. In seguito François Mauriac convinse Wiesel a pubblicare una nuova versione del libro, stavolta di poco più di 100 pagine, uscita in Francia nel 1958 con il titolo La nuit. Quello che mi sconvolge è che il libro faticò a essere pubblicato perché giudicato “troppo morboso”. Troppo morboso? Questo libro è una descrizione fedele di quanto avvenuto al giovanissimo Eliezer Wiesel nei campi di concentramento che ho menzionato prima, come potrebbe non essere crudo, duro, devastante, terribile? Comunque, per fortuna è stato pubblicato ed è oggi considerato un piccolo capolavoro, sebbene sia meno famoso di altri libri sulla Shoah… per motivi a me oscuri, dato che si tratta di un libro spaventosamente importante.

Wikipedia lo definisce un romanzo autobiografico, ma dubito che abbia davvero qualcosa del romanzo, credo invece che sia piuttosto la testimonianza di quanto davvero accaduto a Wiesel. Tuttavia, questa è una mia idea, una sensazione, se volete approfondire la voce di Wikipedia che ho linkato offre spunti interessanti, e sicuramente troverete altro materiale in rete. Del resto, se devo dire la verità, non credo sia davvero importante stabilire se questo sia un romanzo autobiografico o una testimonianza di fatti realmente accaduti: perché Wiesel ha vissuto davvero il campo di concentramento, perciò anche se alcune cose non fossero accadute esattamente così come le racconta in questo libro, sarebbero comunque potute accadere, e questa mi pare la cosa principale. Nel senso che Wiesel racconta una realtà, non un mondo di fantasia, racconta cose che ha visto o che potrebbe aver visto o che qualcun altro ha visto – cose, insomma, che sono accadute: che sia a lui o a un altro ha davvero importanza?

Eliezer Wiesel è un ragazzo di 15 anni nel 1944, quando nella sua città natale, Sighet, in Transilvania, ha inizio la persecuzione degli ebrei, culminata con la loro deportazione. Come dicevo, Wiesel viene portato in diversi campi di concentramento: arriva ad Auschwitz, passa a Birkenau, trascorre la maggior parte del tempo a Buna e, subito prima dell’arrivo dell’Armata Rossa, viene trasferito con tutti gli altri a Buchenwald.

All’inizio gli ebrei di Sighet non riescono a credere che quella in atto sia una vera persecuzione, si fanno coraggio gli uni con gli altri, minimizzano («La stella gialla? Ebbene? Non se ne muore…», dice il padre di Wiesel), vanno avanti con la loro vita. I primi a essere deportati saranno gli ebrei stranieri: uno di essi riuscirà a tornare, per cercare di avvertire gli altri che il loro destino è la morte, ma nessuno gli crederà, lo prenderanno per un pazzo o uno che vuole farsi compatire. Arriverà infine il momento in cui tutti gli ebrei, ormai rinchiusi nel ghetto, saranno deportati. E andranno ad Auschwitz, per essere subito smistati: al forno crematorio, o ai vari campi vicini. Eliezer riuscirà a rimanere con il padre, mentre, come scoprirà in seguito, la madre e la sorellina saranno uccise immediatamente. Le altre due sorelle invece si salveranno, ma ovviamente Wiesel lo scoprirà solo a guerra finita.

L’autore racconta la vita quotidiana nel campo di concentramento, il tentativo di rimanere sempre accanto al padre, il lavoro forzato, la fame, le umiliazioni, il dolore fisico e mentale, la perdita della fede. Sì, perché prima di entrare in campo di concentramento Eliezer era un mistico, un ebreo ortodosso che si interessava di Talmud e Cabbalà, un ragazzo profondamente religioso. Ma nel campo di concentramento Dio gli viene a mancare: il campo di concentramento decreta la morte di Dio, una morte certa, su cui non si può avere dubbi.

Molte delle scene descritte dall’autore sono agghiaccianti, e forse quella che mi resterà per sempre impressa è quella in cui gli ebrei di Birkenau vengono trasferiti a Buchenwald nei carri bestiame, dopo aver marciato per decine di chilometri in mezzo alle campagne innevate. Nel vagone di Eliezer ci sono cento persone, arriveranno a Buchenwald in dodici. Ebbene, la scena di cui parlavo è questa: alcuni uomini lungo il percorso gettano nei vagoni dei tozzi di pane, e gli ebrei, ridotti ormai a bestie dalla fame, dal freddo, dalla stanchezza e dal dolore di tutto ciò che hanno visto e subito, si gettano su quei miseri pezzi di pane come animali, picchiandosi l’uno con l’altro, arrivando quasi a uccidersi l’un l’altro solo per poter avere un tozzo di pane. Un figlio ucciderà suo padre per un boccone di pane. Il padre cadrà nell’indifferenza generale. Una scena che non mi potrò mai cancellare dalla memoria.

Infine, ci tengo solo a dire che questo libro è importante tanto quanto Se questo è un uomo di Primo Levi o, come dice Mauriac nella prefazione, come il Diario di Anne Frank. Dovremmo essere molti di più a leggerlo e rileggerlo. Dovrebbe essere lettura obbligatoria a scuola. E ora concludo con le parole che scrive Wiesel nel libro:

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.

[Incipit] Imre Kertész, Essere senza destino

Oggi non sono andato a scuola. O meglio, ci sono andato, ma solo per farmi esonerare dal nostro professore. Gli ho portato la lettera di mio padre, in cui richiede il mio esonero per “motivi familiari”. Il professore ha chiesto quali fossero questi motivi familiari. Io gli ho risposto che mio padre è stato chiamato al periodo di lavoro obbligatorio; a quel punto lui non ha più fatto obiezioni.
Mi sono precipitato fuori, ma non diretto a casa, bensì alla nostra azienda. Mio padre aveva detto che mi avrebbe aspettato là. E aveva aggiunto di spicciarmi, perché forse ci sarebbe stato bisogno di me. A dire il vero mi ha fatto esonerare proprio per questo. O forse per “sapermi al suo fianco l’ultimo giorno”, prima di “venire strappato via da casa”: già, perché ha detto anche questo, seppure in un altro momento. Se ricordo bene, lo ha detto a mia madre il mattino quando le ha telefonato. Infatti è giovedì, e il giovedì e la domenica, a rigore, è a mia mdre che spetta avermi il pomeriggio. Mio padre, però, le ha comunicato: “Quest’oggi non posso mandarti Gyurka”, e lo ha poi motivato in quel modo. Ma forse mi sbaglio. Questa mattina ero piuttosto stanco a causa dell’allarme aereo nella notte e forse non ricordo bene. Ma sono certo che lo ha detto. Se non a mia madre, allora a qualcun altro.
Poi ho scambiato anch’io qualche parola con mia madre, a che proposito, non lo ricordo più. Credo anche che fosse un po’ arrabbiata con me, perché con mio padre presente non potevo che essere stringato: in fin dei conti oggi è lui che devo seguire. E mentre stavo già per uscire, persino la mia matrigna mi ha rivolto qualche parola confidenziale, in corridoio, a quattr’occhi. Ha detto che sperava, in questo giorno così triste per tutti noi, di poter contare “su un mio comportamento conforme alle circostanze”. Non sapevo cosa rispondere e così non ho detto niente. Ma forse lei ha interpretato male il mio silenzio, infatti ha subito aggiunto che non intendeva assolutamente offendermi con quel richiamo che – lo sapeva anche lei – tanto non era necessario. Non dubitava certo che io, da ragazzo ormai quasi quindicenne quale ero, sapessi valutare la gravità del tiro che ci giocava il destino, si è espressa proprio così. Io ho annuito. Non occorreva altro, come ho capito subito. Lei ha fatto ancora un gesto protendendo le mani verso di me, tanto che io già temevo che mi volesse abbracciare. Invece non l’ha fatto, ha solo sospirato a fondo, con un respiro lungo e fremente. Ho visto che le si sono anche inumiditi gli occhi. È stato spiacevole. Finalmente sono potuto uscire.

Imre Kertész, Essere senza destino (tit. originale Sorstalanság), Feltrinelli, Milano 2016 (prima edizione ungherese 1975). Traduzione dal tedesco di Barbara Griffini.

L’autore su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Imre_Kert%C3%A9sz

Il libro sul sito dell’editore italiano: http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/essere-senza-destino-1-2/

La mia recensione: https://sonnenbarke.wordpress.com/2016/05/09/imre-kertesz-essere-senza-destino/

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Imre Kertész, Essere senza destino

Imre Kertész, Essere senza destino (tit. originale Sortalanság), Feltrinelli, Milano 1999. Traduzione di Barbara Griffini. 223 pagine, 9 euro.

Ho sempre desiderato leggere un libro di Imre Kertész, a causa del mio interesse per gli scrittori che hanno vinto il premio Nobel (Kertész lo ha vinto nel 2002). Del resto se hanno ricevuto il maggiore riconoscimento nel campo letterario, un motivo ci deve essere, perciò mi sembra logico voler provare. L’occasione si è presentata quando un amico mi ha proposto di leggerlo insieme, ovvero leggerlo in parallelo commentandolo man mano che la lettura proseguiva. Una modalità che non avevo mai sperimentato ma che si è rivelata molto buona, in quanto ho letto questo piccolo libro, che normalmente avrei letto in due giorni, in due settimane, gustandomi ogni parola e ogni passaggio, riflettendo su ogni frase, scambiando opinioni e punti di vista. Un’esperienza che sicuramente ripeterò.

Kertész, morto meno di due mesi fa, è stato un prolifico scrittore scampato dal campo di concentramento di Buchenwald, dove era stato deportato all’età di 15 anni. I paralleli fra la sua vita e quella di György detto Gyurka, il protagonista di questo romanzo, sono moltissimi. Si può dunque parlare di un romanzo per così dire autobiografico.

György è un ragazzino di 15 anni, che nei primi capitoli, soprattutto nel primo, si presenta più come un bambino che come un adolescente. Il suo modo di fare, di ragionare, di parlare, appare estremamente infantile, forse perfino più di come potrebbe legittimamente essere per un ragazzo di quell’età. György è ebreo, e il romanzo comincia con il padre che viene spedito al campo di lavoro, e la loro separazione. György non sembra rendersi veramente conto di quello che sta succedendo, il che è forse normale per un ragazzo della sua età, e lo è ancor più se consideriamo l’infantilismo del protagonista.

I primi capitoli sono molto irritanti e mi hanno fatto pensare che non avrei troppo gradito questo romanzo. Un po’ per l’infantilismo di György, molto per un suo intercalare caratteristico, «è naturale». György considera naturale tutto quello che avviene, ad esempio l’odio per gli ebrei del panettiere, che imbroglia sul peso del pane. Secondo György questo è “naturale”, perché il panettiere in prima istanza vuole imbrogliare il cliente e, di conseguenza, per sentirsi a posto con la propria coscienza, odia gli ebrei, così non si sente a disagio nell’imbrogliarli.

In seguito György viene mandato al lavoro forzato, e successivamente al campo di concentramento. Partirà prima per Auschwitz, dove resterà solo tre giorni, e in seguito sarà deportato a Buchenwald, dove passerà la maggior parte del suo tempo da internato a Zeitz, uno dei molti sottocampi di Buchenwald. Durante il processo di cattura e deportazione György continua a ripetere che tutto quello che gli accade, tutto quello che fanno i saoldati tedeschi, è naturale. Questa rassegnazione del protagonista, che certo è parte della più generale rassegnazione degli ebrei di cui si è molto scritto, è estremamente fastidiosa per il lettore, perché egli sa che niente di quello che sta avvenendo è naturale.

Tuttavia, con questo intercalare del protagonista, l’intento dell’autore è certamente farci capire quanto il passaggio dalla normalità, all’odio per gli ebrei, alla loro deportazione e al loro sterminio, sia stato graduale, tanto da poter percepire i singoli piccoli passi come “naturali”. Il libro è in fondo, più che un romanzo sul campo di concentramento, un romanzo sulla gradualità con cui tutto è avvenuto. Ciò verrà espresso alla fine del romanzo anche dal protagonista, che cercherà di spiegare a un giornalista incontrato per caso sul tram che tutto è accaduto in maniera estremamente graduale, perché in caso contrario sarebbe stato impossibile per i deportati “adattarsi” alla situazione e dunque sopravvivere.

Quando György entra nel campo di concentramento la sua ingenuità cade come un velo, e di conseguenza anche il fastidio provato dal lettore nei suoi confronti. György e i suoi compagni si rendono conto subito di quanto sta succedendo nel campo di concentramento, si accorgono immediatamente dei crematori, ne capiscono lo scopo, vedono insomma tutto. Questo da un lato può apparire incredibile, ma credo che fosse la realtà di quanto avvenne, perché i deportati non potevano evitare di sapere cosa accadesse nel campo. Diverso è certo per quei deportati mandati subito alle camere a gas non appena arrivati al campo di concentramento.

Il romanzo, nel penultimo capitolo, tocca anche il tema della resistenza degli internati, soprattutto quelli deportati per motivi politici, nel campo di Buchenwald. Un argomento molto interessante che sembra quasi surreale visto dagli occhi del protagonista che, malato e ormai in fin di vita, era già stato caricato su un carro per essere portato alla morte. Viene invece salvato e portato in infermeria, dove i deportati politici lo curano e lo rimettono in sesto, almeno per quanto possibile.

Alla fine del libro, György parla con varie persone, fra cui persone incontrate per caso e vecchi amici di famiglia, e giunge alla conclusione che sia impossibile far capire agli altri la realtà del campo di concentramento: quel suo essere naturale, la quotidianità, l’essere senza destino, in ultima analisi persino la felicità. Gli altri non possono capire perché non hanno vissuto la stessa esperienza, e sono perciò come bambini, che fanno domande ma non capiscono le risposte. Credo che questo sia estremamente vero, perché noi, oggi, possiamo leggere tutti i libri che vogliamo ma, non essendoci passati, non comprenderemo mai davvero quello che è accaduto, l’esperienza dei deportati.

In ultima analisi un libro molto bello, che mi sento di consigliare a tutti. Non certo all’altezza di altri libri come ad esempio Se questo è un uomo di Primo Levi, ma di fatto un libro che parla di un aspetto diverso, cioè come detto sopra della gradualità. Davvero molto consigliato.

Peter Weiss, L’istruttoria

Peter Weiss, L’istruttoria (tit. originale Die Ermittlung. Oratorium in 11 Gesängen), Einaudi, Torino 1966. Traduzione di Giorgio Zampa. 253 pagine, 13 euro.

L’istruttoria è un testo teatrale scritto da Peter Weiss dopo aver assistito al processo ai funzionari del lager di Auschwitz, svoltosi a Francoforte dal 1963 al 1965. Come dice Zampa nell’introduzione, le battute di questo testo rispecchiano fedelmente quanto detto da testimoni e imputati durante il processo.

Il testo si divide in undici canti che ci accompagnano dalla banchina, dove si fermavano i treni ad Auschwitz, ai forni, passando per le uccisioni per fucilazione, le torture, le uccisioni per gas.

È un testo talmente crudo, talmente diretto, che nulla si può dire al riguardo, perché lascia letteralmente senza parole la brutalità che lo pervade. È forse quanto di più agghiacciante io abbia mai letto, e ne consiglio la lettura a tutti. Come ho letto da qualche parte, è un testo che dovrebbero adottare nelle scuole.

La recensione è volutamente brevissima, perché dopo aver letto questo libro ci vuole solo silenzio.

* L’incipit.
* Il libro su Wikipedia.
* Il libro sul sito dell’editore.
* L’autore.

[Incipit] L’istruttoria

I. CANTO DELLA BANCHINA

Giudice: Signor testimone
lei dirigeva
la stazione terminale dei trasporti
A che distanza era la stazione dal Lager
Testimone I:  2 chilometri dal vecchio Kasernenlager
circa 5 chilometri dal Lager principale
Giudice: Aveva da fare nei Lager
Testimone I: No
Dovevo solo badare
che le linee fossero in ordine
che i treni arrivassero e partissero
in orario
Giudice: In che condizioni erano le linee
Testimone I: Erano tenute in ottimo stato
Giudice: L’orario
era impostato da lei
Testimone I: No
Io dovevo solo applicare misure tecniche
relative al traffico pendolare
tra stazione e Lager
Giudice: Abbiamo agli atti
disposizioni d’orario con la sua firma
Testimone I: Forse una volta fui costretto a firmare
per procura
Giudice: Le era noto lo scopo dei trasporti
Testimone I: Non ero iniziato nella materia
Giudice: Sapeva
che i treni erano carichi di gente
Testimone I: Quanto sapevamo era
che si trattava di trasporti di coloni
sotto protezione del Reich
Giudice: I treni che regolarmente
tornavano vuoti dal Lager
non le fecero dubitare mai di nulla
Testimone I: La gente trasportata
era stata messa a posto

Peter Weiss, L’istruttoria (tit. originale Die Ermittlung. Oratorium in 11 Gesängen), Einaudi, Torino 1966. Traduzione di Giorgio Zampa. 251 pagine, 13 pagine.

* Peter Weiss su Wikipedia.