Enzo Bettiza, Esilio

Enzo Bettiza, Esilio, Mondadori, 1995.

Sono libri diversi l’uno dall’altro, ma questo di Bettiza mi ha fatto pensare (inevitabilmente, credo) a La lingua salvata di Elias Canetti: due racconti di due mondi che non esistono più, due racconti di giovinezze vissute in un mondo multiculturale ormai sorpassato dai nazionalismi e dalle voglie di monocultura. Bettiza stesso parla di monocultura, del suo odio per essa: essendo cresciuto in un ambiente in cui le culture si fondevano e convivevano l’una con l’altra, non avrebbe potuto essere che così (poi sorvoliamo sul pensiero di Bettiza, specie in tempi più o meno recenti, non m’interessa particolarmente in questo contesto).

Qualunque cosa voi possiate pensare di Bettiza, che è stato in primis giornalista e tra l’altro ha fondato “Il Giornale” insieme a Indro Montanelli, lasciatevelo se possibile alle spalle, perché quello che racconta in questo libro è importante, e inoltre lo fa con stile ed eleganza. Non avevo mai letto altri suoi libri, ma lo trovo un narratore sopraffino, seppure a volte si perda in reminiscenze un po’ prolisse. Prima fra tutte quella sulla cucina e i sapori della sua infanzia dalmata: pagine interessantissime, dove sembra di sentire i sapori raccontati, ma che vanno avanti ben più del lecito per non annoiare il lettore.

Vedo che oggi la maggior parte dei libri di Bettiza è introvabile o quasi; lo trovo un peccato perché ha una scrittura eccellente che vorrei approfondire assolutamente, anche nella narrativa. Non capisco neppure perché siano ormai fuori catalogo, dato che questo ad esempio ha anche vinto il Campiello.

Enzo Bettiza nasce in Dalmazia negli anni Venti del secolo scorso, figlio di padre italiano e madre croata. Alt, fermiamoci subito. Siamo negli anni Venti e la Dalmazia non è come la conosciamo noi oggi. Il padre di Bettiza ha optato per la cittadinanza italiana alla fine della prima guerra mondiale, mentre la madre era slava, così come anche altri parenti dello scrittore, pure da parte di padre, dato che dopo la guerra ognuno era libero di scegliere fra la cittadinanza italiana e quella jugoslava.

Bettiza riceve la propria educazione nelle scuole italiane, prima nella nativa Spalato e poi a Zara. È però perfettamente bilingue, italiano e serbo-croato, anche grazie all’amatissima balia serba, che gli racconta tra l’altro le storie della sua terra.

Il libro arriva fino alla guerra, ai tempi appunto dell’esilio, quando la ricca famiglia Bettiza, proprietaria di un importantissimo cementificio a Spalato, passa all’estremo opposto della disgrazia e della povertà ed è costretta all’esilio in Italia. Questa parte non è però raccontata nel libro, eccetto il breve esilio del 1943, di un mese, trascorso a Civitanova Mare (Civitanova Marche).

Bettiza dice nell’epilogo che i percorsi che questo libro traccia sono diversi: lui avrebbe voluto raccontare il presente della guerra e della dissoluzione della Jugoslavia nei primi anni Novanta, visto attraverso il velo del passato, invece ha finito per scrivere un altro tipo di libro, che può essere letto in vari modi. Un’autobiografia? Sì, certo. Una saga familiare? Senz’altro. La storia di Spalato? Assolutamente sì. Io però lo vedo più come il canto di un’epoca che non c’è più, di un mondo che non c’è più.

C’è un libro di Israel J. Singer, che devo ancora leggere, che si intitola Da un mondo che non c’è più. Questo libro di Bettiza avrebbe potuto chiamarsi allo stesso modo. La Dalmazia, la Felix Austria, la Galizia, e tutti gli altri mondi ormai passati e finiti nel dimenticatoio. Qui troverete questo tipo di narrazione.

Poi un vecchio articolo di Repubblica parla di jugonostalgia: è vero, Bettiza è un nostalgico, è un oppositore della monocultura, un amante del multiculturalismo, della convivenza tra culture, del bilinguismo. Ma non lo vedrei in senso negativo, tutt’altro. Ci sono tanti nostalgici dell’Impero Austro-Ungarico, per esempio: ora, se la si butta sul folklore e sulla caciara, può sembrare una cosa irrevocabilmente passatista, una nostalgia del tutto negativa e un po’ ridicola, come i nostalgici dei Savoia. Secondo me non è per niente così. Si tratta, anche nel caso di Bettiza ma non solo, di una nostalgia per un mondo che sapeva in certo modo essere più aperto del nostro, che sapeva abbracciare diversi popoli e culture, senza per forza doverli fondere sotto una cultura cosiddetta superiore o migliore delle altre, ma lasciandole convivere l’una accanto all’altra. L’appiattimento culturale auspicato dai nazionalismi non è, secondo me, auspicabile, ma proprio per niente. Bettiza non voleva un’assimilazione forzata, avrebbe voluto tornare alla convivenza e al multiculturalismo, pur sapendo che solo sulla carta di un libro questo sarebbe stato possibile.

Se vi capita di trovare questo libro in biblioteca o in qualche bancarella, non lasciatevelo scappare. Tenete duro durante il noioso prologo, tenete duro quelle volte che le reminiscenzedi Bettiza, culinarie e non, vi annoieranno: ne varrà la pena.

Caroline Kepnes, You

Caroline Kepnes, You (tit. originale You), Mondadori, 2015. Traduzione di Paola Bertante.

Attenzione: questa recensione contiene SPOILER!!!

Sicuramente l’idea di usare come narratore uno psicopatico con problemi di tipo sessuale è interessante, l’ho fatto anch’io una volta quando (qualche millennio fa) mi dilettavo a scrivere. È altrettanto interessante che il suddetto narratore-psicopatico utilizzi la seconda persona singolare, rivolgendosi tutto il tempo a “te”. Naturalmente, questo “tu” è Beck, la protagonista della sua ossessione, ma è abbastanza disturbante da leggere perché il lettore (la lettrice) potrebbe benissimo immedesimarsi in questo “tu”.

Tuttavia, il mio problema con questo libro non è che sia brutto: forse non lo è, o forse lo è. Il mio problema è che non sono neppure riuscita a capire se sia brutto o meno, tanto l’ho trovato disturbante. Immaginerete che stare dentro la testa di uno psicopatico che si ritiene romanticissimo non può certo essere piacevole.

Molte volte sono stata tentata di abbandonare, tanto più che sicuramente 422 pagine sono troppe per questo tipo di romanzo. Ma ho perseverato e, contrariamente ad altri lettori, ho preferito le parti finali a quella iniziale. Quando Joe, il nostro protagonista psicopatico, scopre che Beck ha trovato la sua scatola segreta e inizia a trattare LEI come una psicopatica, il tutto comincia a diventare ancor più agghiacciante perché siamo di fronte a qualcosa di già visto e sentito milioni di volte: il compagno psicopatico che fa gaslighting alla compagna dopo averla stalkerata nella vita reale e in quella virtuale, e infine la uccide perché lei non vuole stare con lui ma poi gli dispiace, non perché l’ha uccisa ma perché ora non potrà più stare insieme a lei.

In conclusione, come ho detto, non ho idea se questo romanzo sia bello o brutto, so solo che è terrificante e fa orrore. Sconsigliato alle persone sensibili (come io probabilmente sono).

Carmine Abate, Il muro dei muri

Carmine Abate, Il muro dei muri, Mondadori, 2014. Pubblicazione originale 1984.

Carmine Abate, calabrese di etnia arbëreshë, è stato per molti anni un Gastarbeiter, o un germanese, come vengono chiamati in Calabria (o almeno nel paese dell’autore) i “lavoratori ospiti” che dagli anni Cinquanta ai Settanta emigrarono in Germania in cerca di lavoro. Con il corpo in Germania e il cuore in Italia, possono essere paragonati alle persone che oggi arrivano nel nostro paese in cerca di lavoro e di maggiore fortuna.

I germanesi non sono richiedenti asilo, non sono rifugiati, sono semplicemente persone (in genere uomini) che, non trovando lavoro nel proprio paese, decidono di emigrare in Germania, dove magari vive già il padre o qualche parente. A volte portano con sé le famiglie, ma più spesso moglie e figli restano al paese ad aspettare quelle poche settimane l’anno che i mariti trascorreranno con loro. Qui c’è un bellissimo sito dedicato ai Gastarbeiter, molto bello anche graficamente.

Questa esperienza è fondamentale nei libri di Abate, di cui ho già letto La festa del ritorno qualche anno fa. Addirittura, Il muro dei muri fu inizialmente pubblicato in Germania e scritto dall’autore in tedesco.

Questo libro è una raccolta di brevi racconti (l’intero libro ha circa 200 pagine) in cui le tematiche principali sono proprio l’emigrazione, la vita in Germania, i brevi e rarissimi ritorni al paese, la ricerca di fortuna raramente trovata, il lavoro spesso duro, gli episodi di razzismo quotidiano. È un libro tremendamente attuale, perché nelle quotidiane fatiche dei protagonisti di questi racconti (in cui è facile rivedere l’autore), siamo messi di fronte a quello che oggi sono costretti a sperimentare coloro che da altri paesi vengono in Italia.

Un racconto che mi ha colpito molto è quello in cui un ragazzo lavora in un ristorante italiano, sfruttato da un compaesano che ha fatto fortuna ma che per questo si crede in diritto di ergersi al di sopra della legge e di approfittarsi della disperazione dei suoi dipendenti. Una sera, al ristorante si presenta un gruppo di uomini tedeschi che prende a insultare pesantemente il cameriere. Appunto, episodi di razzismo quotidiano, di fronte a cui si tende a chiudere un occhio anche se tutti siamo consapevoli che fanno schifo.

Il protagonista dello stesso racconto si era fidanzato con una ragazza del paese: la famiglia di lei regala ai due ragazzi una casa ancora da finire, anzi addirittura appena iniziata, e ovviamente sarà lui a doversene occupare. Non gli resta perciò che andare a lavorare in Germania, l’unico modo per mettere insieme i soldi che gli servono per terminare la costruzione della casa. Parte praticamente obbligato dai futuri suoceri, arriva con una nostalgia di casa che non lo abbandonerà mai (Heimweh, la chiamano i tedeschi), così come avviene a tutti i germanesi. Fatica a trovare un lavoro dignitoso, una sistemazione abitativa degna di questo nome, e tutto questo lo porta a vivere con fatica l’idea di farsi sentire con i genitori e con la fidanzata. La trascurerà, fino a trovarsi lei e i suoceri in casa: hanno fatto un viaggio di 2000 km per andare a mettere il ragazzo con le spalle al muro e costringerlo a prendersi le sue responsabilità.

Ci sono molti racconti degni di nota, ad esempio un altro che ho apprezzato è l’ultimo, nel quale la violenza esce dal quotidiano e degenera facendosi brutale: un gruppo di naziskin picchia a sangue un ragazzo di origine italiana. Nato e cresciuto in Germania da genitori italiani, parla meglio il tedesco che l’italiano, ma per i neonazisti è uno straniero di merda, e quindi è giusto e lecito massacrarlo di botte fino a mandarlo all’ospedale. Il protagonista però non è questo ragazzo, ma il suo insegnante di italiano, che si interroga: il racconto si svolge subito dopo la caduta del muro di Berlino, eppure i muri continuano ad ergersi altissimi, i muri del razzismo.

Lo consiglio.

[Incipit] Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari

Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione.
Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente. Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò nello specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato. Nella casa c’era un grande silenzio, si udivano solo piccoli rumori da una stanza vicina; sua mamma stava alzandosi per salutarlo.
Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all’Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice; delle sveglie invernali nei cameroni gelati, dove ristagnava l’incubo delle punizioni. Ricordò la pena di contare i giorni ad uno ad uno, che sembrava non finissero mai.
Adesso era finalmente ufficiale, non aveva più da consumarsi sui libri né da tremare alla voce del sergente, eppure tutto questo era passato. Tutti quei giorni, che gli erano sembrati odiosi, si erano ormai consumati per sempre, formando mesi ed anni che non si sarebbero ripetuti mai. Sì, adesso egli era ufficiale, avrebbe avuto soldi, le belle donne lo avrebbero forse guardato, ma in fondo – si accorse Giovanni Drogo – il tempo migliore, la prima giovinezza, era probabilmente finito. Così Drogo fissava lo specchio, vedeva uno stentato sorriso sul proprio volto, che invano aveva cercato di amare.
Che cosa senza senso: perché non riusciva a sorridere con la doverosa spensieratezza mentre salutava la madre? Perché non badava neppure alle sue ultime raccomandazioni e arrivava soltanto a percepire il suono di quella voce, così familiare ed umano? Perché girava per la camera con inconcludente nervosismo, senza riuscire a trovare l’orologio, il frustino, il berretto, che pure si trovavano al loro giusto posto? Non partiva certo per la guerra! Decine di tenenti come lui, i suoi vecchi compagni, lasciavano a quella stessa ora la casa paterna fra allegre risate, come se andassero a una festa. Perché non gli uscivano dalla bocca, per la madre, che frasi generiche vuote di senso invece che affettuose e tranquillanti parole? L’amarezza di lasciare per la prima volta la vecchia casa, dove era nato alle speranze, i timori che porta con sé ogni mutamento, la commozione di salutare la mamma, gli riempivano sì l’animo, ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno.

Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 1989 (prima edizione originale 1945).

Il sito ufficiale dedicato all’autore: http://dinobuzzati.it/

Il libro sul sito dell’editore: http://www.librimondadori.it/libri/il-deserto-dei-tartari-dino-buzzati

La mia recensione: https://sonnenbarke.wordpress.com/2016/01/11/dino-buzzati-il-deserto-dei-tartari/

[Incipit] Italo Calvino, Le città invisibili

Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.

Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2012 (prima edizione 1972).

L’autore su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Italo_Calvino

Il libro sul sito dell’editore: http://www.librimondadori.it/libri/le-citta-invisibili-italo-calvino

Un progetto artistico basato sul libro: http://www.videlart.it/work/le-citta-invisibili/