Douglas Murray, La pazzia delle folle

Douglas Murray, La pazzia delle folle (tit. originale The Madness of Crowds), Neri Pozza, 2020. Traduzione dall’inglese di Filippo Verzotto. Pubblicazione originale 2019.

È abbastanza difficile valutare questo libro, perché le idee che tratta sono estremamente controverse e lo fa in maniera non filtrata. Murray è dichiaratamente un conservatore e questo non può che rappresentare le lenti attraverso cui vede le tematiche da lui affrontate. C’è da dire che espone bene le proprie idee, scrive bene, è arguto e quello che dice è documentato. Come è stato scritto da alcuni recensori, è pure vero che molto spesso si basa sull’aneddotica e questo è pericoloso perché è altrettanto facile trovare un uguale numero di aneddoti che dimostrino esattamente il contrario di quello che vuole dimostrare l’autore di questo libro.

Murray divide il libro in quattro sezioni: gay, donne, razza e trans. Tutte tematiche scottanti. Dal suo punto di vista, non c’è oppressione e oggi (ovvero quando scrive, nel 2019) a queste categorie è garantita un’enorme quantità di diritti, come mai è stato prima e come non è in alcun altro stato contemporaneo (essendo inglese, Murray parla soprattutto di Regno Unito e Stati Uniti).

Inutile dire che non sono particolarmente d’accordo con questo assunto di base. Prendiamo l’esempio delle donne: negli USA, o almeno in molti Stati degli USA, avevano diritto all’aborto, ma ora pare che questo diritto, che secondo Murray fa parte dei diritti acquisiti, verrà loro negato. O almeno c’è il rischio concreto che questo avvenga. Oppure, senza andare tanto lontano e restando sullo stesso tema: nel nostro paese abbiamo una legge che sancisce il diritto all’aborto, ma l’enorme quantità di medici obiettori fa sì che in molti posti (tipo il Molise) le donne non godano davvero di questo diritto.

Eppure mi sono trovata a essere d’accordo con alcune idee dell’autore. Facciamo un esempio: io sono sempre stata contraria alle quote rosa (noi non abbiamo altre quote in Italia, ma in altri posti tipo gli USA, anche in luoghi come le università, ci sono delle quote da rispettare anche per quanto riguarda la “razza”, magari in molti casi implicite ma comunque ci sono). Secondo me alle donne o alle minoranze non dovrebbero essere riservate delle quote per legge, perché io auspico che le donne o le persone appartenenti a minoranze arrivino a ricoprire incarichi importanti o semplicemente siano assunte in un’azienda sulla base dei loro meriti e non solo perché c’è da riempire una quota. Naturalmente, la realtà spesso impedisce che questo avvenga, perché le donne vogliono diventare madri e quindi meglio non assumerle, ad esempio. È quindi una questione controversa.

Oppure, io sono sempre stata per la colour-blindness: ovvero, non mi interessa quale sia il colore della tua pelle, mi interessa solo che sei una persona esattamente come me. Puoi essere una persona buona o cattiva, ma questo non dipende affatto dal colore della tua pelle. Questo non significa che non creda all’esistenza e alla perniciosità dei suprematisti bianchi, ma non significa neanche che io debba essere d’accordo con chi vuole farmi credere che la vita di una persona di colore conti più di quella di un bianco. Certamente, io come tanti altri mi sono sentite rivoltata dalla campagna “White Lives Matter” in contrapposizione a Black Lives Matter, perché ci ho visto tanto suprematismo bianco, come in effetti era. Però resto della mia idea: la tua etnia non mi interessa.

Preferisco poi parlare di etnia perché noi italiani abbiamo una brutta storia con la parola “razza”, ma di questo Murray non parla perché in inglese è assodato parlare di razza. Per me non lo è, e non mi sentirete mai dire che una persona è di razza bianca o di razza nera, per me non esiste un discorso del genere.

Murray vuole farci credere che molti dei movimenti per i diritti dei gay, delle donne, ecc. vogliano far passare il messaggio per cui i gay, le donne, ecc. sono migliori degli altri. “Più uguali degli altri”, se ci ricordiamo i maiali di Orwell. Ebbene, questo secondo me delle volte è vero. Nel senso che delle volte mi è capitato di incontrare in rete o di sentire interviste ad attivisti che propugnano esattamente questo messaggio. Che, inutile dirlo, nuoce a tutta la categoria che essi si pregiano di difendere. Perché se, per esempio, le femministe cominciano ad essere viste come donne isteriche che pensano di essere migliori degli uomini, questo nuoce a tutta la categoria delle donne che realmente vogliono avere maggiori diritti. Che non significa “maggiori rispetto agli uomini”, significa semplicemente “maggiori di quelli che hanno ora”. Eppure, per alcune attiviste non è così.

Una cosa che mi dà fastidio, ad esempio, e di cui pure Murray parla, è accusare di mansplaining qualunque uomo tenti di instaurare un dibattito. Mi è capitato di leggere in alcune pagine femministe delle discussioni a cui partecipavano anche degli uomini che a me apparivano sinceramente desiderosi di comunicare, capire e parlare del proprio punto di vista: uomini subito tacciati di fare mansplaining dalla proprietaria della pagina. Così il dibattito si chiude, e poi non mi meraviglio se alcuni uomini pensano che le femministe siano chiuse e ostili.

Oppure, Damiano dei Maneskin si dice un alleato delle donne e in particolare della sua compagna che lotta quotidianamente contro la vulvodinia. E per alcune femministe (curiosamente, nella medesima pagina di cui sopra) questo è sbagliato perché non deve essere un semplice “alleato”, ma fare proprie quelle battaglie. Da un lato sì, ma dall’altro, come può un uomo fare sua una battaglia che è destinato a non combattere mai in prima persona? Ergo, per me fa bene a definirsi alleato, ma l’importante per alcune femministe è fossilizzarsi sulle parole e non guardare al succo della questione.

Per quanto invece riguarda la comunità LGBT, curiosamente Murray è omosessuale, quindi ritengo che il suo punto di vista sulla questione sia ancor più interessante. Il succo è che gli omosessuali e i bisessuali dovrebbero e spesso vorrebbero semplicemente essere considerati uguali agli altri: per esempio, in grado di mettere su famiglia e di avere una relazione monogama come la maggior parte degli etero. Murray è quindi contro gli eccessi di manifestazioni come il Pride, ma diciamo pure che è contro gli eccessi in generale.

Riguardo ai trans, Murray porta tantissimi esempi di persone trans famose (per esempio la scrittrice Jan Morris) per sottolineare che è una condizione del tutto reale e dolorosa. Però pecca comunque di transfobia in quanto porta avanti un punto sostanzialmente pari a quello delle TERF. Insomma, ci crede, ma non gli garba, potremmo dire. Del resto dice anche una cosa interessantissima, ovvero che secondo lui si dovrebbe dare assai più ampio spazio alla questione dell’interesessualità, perché nonostante quello che potremmo credere gli intersessuali non sono pochi e vivono un dramma di cui la comunità LGBT e gli attivisti in generale si dovrebbero fare alleati. Ne fa, usando una terminologia diffusa nel suo libro, una questione di hardware e non di software, ovvero del tutto esterna e tangibile e non interna e soggettiva o interpretabile.

In conclusione, è un libro che infastidisce, ma è anche un libro che fa riflettere e, per quanto io non sia d’accordo con l’assunto finale per cui i diritti ci sono e sono ormai inamovibili (non è vero che siano inamovibili), sono però d’accordo con l’idea che spesso si esagera e che per alcuni e alcune certe comunità o minoranze siano “più uguali delle altre”.

Boris Pahor, Quello che ho da dirvi

Boris Pahor, Quello che ho da dirvi, nuovadimensione, 2015.

Boris Pahor è triestino sloveno, infatti scrive tutti i suoi libri in sloveno. Nato nel 1913, ha la bellezza di 108 anni (!) ed è stato più volte candidato al premio Nobel per la letteratura. Questo libro nasce dalle conversazioni che ha avuto con alcuni studenti delle superiori in Friuli. Alcuni professori hanno organizzato questi incontri fra Pahor e un piccolissimo gruppo di ragazzi che avevano quasi 90 anni meno di lui, e ne è nato questo libro davvero interessante.

La parte che ho trovato più interessante è stata la prima, dove Pahor parla del tema che più gli sta a cuore, ovvero l’appartenenza a una nazione e la nazionalità. Che è diverso dalla cittadinanza. Come dicevo, Pahor è triestino, ma di lingua e cultura slovena, così come tanti altri triestini. Nel 1920, a 7 anni, assistette all’incendio (appiccato dai fascisti) del Narodny Dom, la Casa del Popolo. Questo evento lo segnò profondamente, tanto che ritorna in molti dei suoi libri.

È una storia poco conosciuta (perché come dice Pahor i libri di storia tralasciano tante cose anche importantissime): i fascisti cercarono di italianizzare gli sloveni di Trieste, non potevano sopportare che ci fosse una cultura diversa da quella italiana. Perciò, oltre a incendiare la Casa del Popolo, costrinsero gli sloveni a italianizzare i loro nomi e cognomi, gli proibirono di parlare la loro lingua, e li vessarono in ogni modo immaginabile.

Pahor aveva iniziato le elementari in sloveno, poi ci fu il divieto di parlare questa lingua e fu costretto a proseguire in italiano, cosa che lo portò ad avere numerosi problemi a livello di rendimento scolastico. Pahor leggeva di nascosto i libri sloveni, perché per lui era ed è importante rivendicare l’appartenenza alla propria cultura e nazionalità. La globalizzazione, dice, non può significare un appiattimento e un cercare di eliminare differenze che ci sono e non possono essere ignorate. Come dice lui, dall’orgoglio per la propria appartenenza nazionale al nazionalismo il passo è breve, quindi bisogna fare attenzione. Ma l’intento reale del nazionalismo è imporre la propria cultura sulle altre, e non rivendicare con orgoglio la propria appartenenza.

Anche le altri parti sono molto interessanti, particolarmente quella dove parla della sua esperienza in vari campi di concentramento nazisti, dove fu rinchiuso in quanto comunista (lui non si è mai identificato nell’ideologia comunista, però). Inoltre, Pahor parla anche del suo rapporto con la religione, con le donne e altre tematiche importanti. Il tutto racchiuso in appena un centinaio di pagine.

Mi dispiace molto che questo libro non sia maggiormente conosciuto, è un vero peccato. Secondo me lo meriterebbe, perciò se riuscite a trovarlo ve lo consiglio.

Anna Wiener, La valle oscura

Anna Wiener, La valle oscura (tit. originale Uncanny Valley), Adelphi, 2020. Traduzione dall’inglese di Milena Zemira Ciccimarra.

Sarò sincera, questo libro è stato una tortura. L’idea era interessante: raccontare la Silicon Valley nel bene e soprattutto nel male, svelandone i lati oscuri. Il primo quarto del libro è stato, in effetti, abbastanza interessante. Poi ha cominciato a ripetersi e a sbrodolare, fino a diventare un intruglio insopportabile. Non come quando mandi giù una medicina amara, no: la medicina fa schifo ma almeno serve, questo invece non serve proprio a niente.

Anna Wiener ha 25 anni e lavora nell’editoria a New York. A un certo punto, non è che si capisca bene perché, decide di lasciare New York (da cui non era mai uscita!) e di trasferirsi a San Francisco per lavorare nel settore del tech. Per i soldi, pare di capire. Non per il successo, proprio e solo per guadagnare di più. Legittimo. Wiener però non ha alcuna formazione di tipo tecnologico, non è programmatrice, non è ingegnere informatico, è un’umanista e le piacciono i libri. Tuttavia, trova lavoro in un’azienda di analisi dati prima, e in un’azienda di software open source poi, anche se ovviamente non in un ruolo tecnico.

Ed ecco subito la cosa più irritante di questo libro: Wiener non nomina mai nessuna delle aziende di cui parla. Non solo quelle per le quali ha lavorato (che avrebbe anche potuto avere senso, se avesse rivelato qualche grande segreto, ma ci torno fra un attimo), ma neanche quelle che cita di sfuggita o che c’entrano molto relativamente con il suo lavoro, essendo più che altro parte della quotidianità di ciascuno. Per esempio, “il social network che tutti odiavano”. Mica Facebook, no? “Il grande negozio online”. Oddio, che grande ed efficace modo di nascondere che sta parlando di Amazon. E così via. Nessuna, dico nessuna azienda ha un nome. Ma dirò di più, proprio niente ha un nome. A un certo punto un personaggio cita una famosa frase del Trono di Spade, ma mica penserete che Wiener possa nominare il titolo del romanzo? Certo che no, è semplicemente “un famoso romanzo fantasy”.

Allo stesso modo, pochissime delle persone di cui l’autrice parla vengono chiamate per nome. Solo i suoi amici e il suo fidanzato. In questo caso potrebbe avere senso per dare l’idea della spersonalizzazione attiva nella Silicon Valley, invece visto quanto sopra ha senso probabilmente solo nella testa dell’autrice.

Comunque, se proprio siete curiosi, qui c’è chi si è preso la briga di identificare tutto e tutti. Diciamo però subito che nella maggior parte dei casi, qualunque persona frequenti internet capirà perfettamente di che aziende si sta parlando, vedi gli esempi sopra. Quindi, esercizio del tutto inutile se non per irritare i lettori. O almeno me.

Detto questo, il rischio di un libro come questo era dietro l’angolo: finire per suonare come il racconto (a quanto pare è un memoir, dice il sottotitolo dell’edizione originale) di una persona privilegiata, annoiata, che vuole i soldi ma allo stesso tempo aborre il modo per guadagnarli, e schifa tutti quelli che come lei vogliono i soldi. In effetti spesso schifa anche se stessa, quindi un minimo di autocritica c’è, però sembra più di superficie che di sostanza, onestamente. Il succo, in ogni caso, è: la Silicon Valley e l’industria del tech fanno schifo. Va bene, è il suo punto di vista.

Ora, tante delle cose che Wiener racconta possono essere interessanti per chi non conosca quel mondo, però sarebbe bastato un articolo di giornale, per la miseria. Altro che 300 pagine. Tuttavia, seppure molto parzialmente e incidentalmente, è un mondo di cui ho avuto una minima esperienza avendo lavorato per una delle tante aziende che cita, seppure in Europa e non in America, quindi le cose erano parecchio diverse, anche se con un fil rouge comune. Tuttavia, per me non è stato un libro che mi ha aperto gli occhi su qualche realtà totalmente aliena. Ma a dire il vero, fatico a pensare che possa esserlo per qualcuno.

Infatti, Wiener non racconta niente, sostanzialmente. Se non le sue giornate passate a rispondere alle richieste di assistenza, gli amministratori delegati che si credono dio, la finta superiorità dei colleghi e in particolar modo di quelli che sono davvero “tecnici”, l’alienazione data dalla continua commistione tra lavoro e tempo libero. Eccetera. Niente di eccezionale, niente che non abbiamo già sentito da altri mille articoli o persone che in quel mondo hanno lavorato. Wiener non svela niente. Non ci sono rivelazioni dove uno dice “ah! oooh!”. Wiener non è una whistleblower, ma neppure ci si avvicina a una distanza di diecimila chilometri. Wiener parla della sua vita, che è una vita noiosa e come quella di tanti altri lavoratori di start-up o multinazionali di stampo americano. Niente di nuovo sotto il sole, ve lo assicuro.

Inoltre, l’autrice è vagamente ossessionata dal sessismo, ma in maniera un po’ incidentale, come se ogni tanto si svegliasse dal suo soporifero racconto e si ricordasse che doveva parlare di sessismo nella Silicon Valley e nel tech. Non metto in dubbio che sia un settore sessista, dato che è in prevalenza maschile. Anzi, ne sono abbastanza sicura. Ma mi dispiace dirlo, gli episodi raccontati dall’autrice non sono particolarmente sessisti. Come dice questa recensione di una donna femminista e vittima di vere discriminazioni sessiste e razziste, affermare che ogni minima cosa sia sessista o razzista riduce il potere della lotta contro le vere discriminazioni. Mio pensiero da sempre, ma fa brutto dirlo, anzi in certi ambienti è proprio vietato, tabù.

Se proprio vi sentite interessati, qui ci sono molti estratti dall’originale inglese. Qui invece c’è una bella recensione di una persona a cui il libro è piaciuto. Io però mi sento di consigliarvi di impiegare in altro modo il vostro tempo.

Yeonmi Park, La mia lotta per la libertà (Corea del Nord)

Yeonmi Park, La mia lotta per la libertà (tit. originale In Order to Live. A North Korean Girl’s Journey to Freedom), Bompiani 2015. Traduzione dall’inglese di Veronica Raimo.

Yeonmi Park fugge dalla Corea del Nord insieme alla madre all’età di 13 anni. In Corea del Nord viveva a Hyesan, una cittadina nel nord del paese dove la famiglia (padre, madre e due figlie) sopravviveva grazie ai traffici del padre che commerciava in merce di contrabbando, riuscendo a offrire alla famiglia una vita più o meno dignitosa. Quando il padre viene arrestato, la famiglia piomba nella povertà più assoluta, tanto che le due sorelle, rimaste sole dato che la madre è andata a Pyongyang per cercare di aiutare il marito, sono costrette a mangiare erbe di campo e insetti.

La descrizione della vita in Corea del Nord è, come si può immaginare, difficile da mandare giù. Addirittura veniamo a sapere che durante la carestia c’erano perfino cadaveri per le strade, di cui ovviamente gli animali facevano libagione. Scene raccapriccianti a cui le due bambine, Yeonmi ed Eunmi, sono costrette ad assistere quotidianamente. Un paese in cui la povertà è estrema, soprattutto ma non solo a causa della carestia, in cui la lotta per la sopravvivenza è vissuta giorno per giorno e anche mangiare è una lotta quotidiana.

Per non parlare di quella che viene definita “dittatura emotiva”: la dittatura nordocreana impone il pensiero unico e la venerazione dei Kim e non tollera sgarri, punendo durissimamente chi osa proferire o anche solo pensare parole che possono in qualche modo apparire contrarie al regime. Ai cittadini viene inculcata fin da piccoli l’idea che i mali della Corea del Nord, che tuttavia è da considerarsi il paese migliore del mondo, siano dovuti esclusivamente agli yankees americani e alla Corea del Sud. Così come viene inculcata loro la venerazione per i Kim, tanto che a nessun nordcoreano verrebbe in mente di mettere in discussione la superiorità assoluta e perfino la quasi “santità” dei Kim. I nordocreani credono fermamente a quello che il regime inculca nelle loro menti, tanto che Yeonmi ci dice che sua madre crede fermamente al fatto che il caro leader sia un essere divino, immortale, capace di fare miracoli, e non riesce a darsi pace né a credere alle proprie orecchie quando questo muore.

Per sfuggire alla fame e alla povertà, Yeonmi, Eunmi e la loro madre decidono dunque di fuggire dalla Corea del Nord, aiutate da una donna che le farà andare nella vicinissima Cina (Hyesan si trova al confine). Eunmi decide di fuggire da sola il giorno prima, e le due donne non avranno sue notizie per anni. Yeonmi ci racconta la storia della fuga sua e di sua madre e la successiva scoperta che sono state vendute ai trafficanti di essere umani, che a loro volta le hanno comprate per venderle come mogli a dei contadini cinesi. Le due subiscono violenze e vengono ridotte a meri oggetti: né più e né meno che schiave. Le vicissitudini di Yeonmi e di sua madre in Cina sono infinite e orribili, sebbene la ragazza stessa ammetta che in seguito conoscerà donne nordcoreane che, fuggite anch’esse in Cina, hanno vissuto esperienze di gran lunga peggiori.

Infine le due donne riescono a fuggire in Corea del Sud passando per la Mongolia, dove devono attraversare a piedi il terribile deserto del Gobi durante l’inverno. In Corea del Sud la vita non sarà tutta rose e fiori dato che, anche se i nordcoreani vengono accolti come cittadini, vengono sempre percepiti come stranieri e “inferiori”. Ma Yeonmi riesce a ricavarsi una sua nicchia, a studiare come ha sempre desiderato, e diventa infine una paladina dei diritti umani.

Sebbene non si possa negare che il racconto di Yeonmi presenti caratteristiche che ai nostri occhi occidentali possono sembrano poco verosimili, non sono d’accordo con quei recensori che dubitano del racconto della ragazza affermando che abbia ingigantito o perfino abbellito le sue esperienze. Questi recensori hanno mai vissuto sotto una dittatura, sono mai stati vittime di tratta? La risposta è ovviamente no, perciò mi chiedo chi siano loro, chi sia io per giudicare. Nessuno di noi può immaginare cosa si provi e cosa si viva durante queste orribili esperienze, quindi nessuno di noi è in grado di giudicare se siano vere o false. Dobbiamo fidarci di quello che ci dice Yeonmi, e a dire il vero non vedo perché non dovremmo farlo.

Non avendo letto altri resoconti di disertori dalla Corea del Nord non so se questo di Yeonmi Park sia migliore o peggiore di altri, ma mi sento di consigliarlo. Tuttavia, se sapete l’inglese leggetelo in lingua originale, perché la traduzione italiana è addirittura imbarazzante, piena com’è di calchi dall’inglese, termini tradotti in maniera errata, parole usate a casaccio e perfino alcune parole lasciate in inglese perché evidentemente non si sapeva come tradurle. Un editing avrebbe aiutato molto, ma quasi sicuramente si voleva far uscire presto questo libro e si è deciso di non aspettare i tempi di un editing. Davvero peccato.

Nellie Bly, Dieci giorni in manicomio

Nellie Bly, Ten Days in a Mad-House, pubblico dominio.

Questo piccolo libro (meno di 100 pagine) è di pubblico dominio e può essere scaricato liberamente in lingua originale inglese, mentre in italiano è stato pubblicato nel 2017 da Edizioni Clandestine con il titolo Dieci giorni in manicomio.

È il reportage, pubblicato nel 1887, di Nellie Bly, una delle prime giornaliste investigative, che, su richiesta del giornale per il quale scriveva, ha passato dieci giorni in manicomio, fingendosi pazza per potervi accedere.

Vi sono molte cose impressionanti in questo libro, e una delle prime con cui veniamo in contatto è l’estrema facilità con cui la giornalista Nellie Bly è riuscita a farsi internare in un manicomio da cui la gente normalmente non sarebbe mai più uscita. L’autrice si reca in una casa per donne che sono in cerca di lavoro e qui inizia a “fingersi pazza”: in realtà non fa niente di particolarmente strano a parte dire che ha mal di testa e che vuole recuperare i suoi bauli, e rifiutare di dire dove sia la sua casa. Questo, oggi (e anche allora, a molti), ci sembra cosa di poco conto e certo non indicante una “pazzia” in corso, ma nonostante questo Nellie Bly, con il nome fittizio di Nellie Brown, viene condotta davanti a un giudice e fatta visitare da alcuni medici che la dichiarano pazza “senza speranza” e la internano in manicomio. Qui resterà dieci giorni, e vorrei ricordare che, sebbene i suoi capi le avessero detto che “in qualche modo” l’avrebbero tirata fuori, non c’era in realtà alcuna garanzia che vi sarebbero riusciti, quindi ode a questa intrepida giornalista.

L’autrice, oltre a descrivere dettagliatamente gli eventi che l’hanno portata a essere dichiarata pazza senza speranza, passa poi a descrivere la vita nel manicomio, e anche qui abbondano i dettagli agghiaccianti. Le infermiere non fanno che infliggere torture fisiche e psicologiche alle loro pazienti, e si rimane stupefatti dal sadismo di queste donne che, in teoria, avrebbero dovuto prendersi cura delle ricoverate. Queste infermiere invece non esitano a strozzare, strangolare, picchiare, saltare sopra alle pazienti procurando loro lesioni agli organi interni o rompendo loro le costole, sottoporle a bagni freddi anche nel caso in cui esse siano malate. Come dicevo, il sadismo è impressionante. I medici non sanno o, più probabilmente, fingono di non sapere, perché in definitiva per nulla interessati alla sorte delle “pazze” internate nel loro manicomio.

Come riporta la giornalista, dal momento in cui è stata ricoverata ha iniziato a comportarsi in maniera perfettamente normale e nonostante questo continua a essere indicata come “pazza”. Non solo, ma anche moltissime delle donne internate insieme a lei appaiono perfettamente sane di mente eppure subiscono questo ricovero che sarà quasi sicuramente a vita, o per meglio dire una condanna a morte. Bly non esita ad affermare che la sorte dei carcerati è migliore, in quanto quelli hanno una seppure minima possibilità di dichiararsi innocenti e sperare di essere rilasciati dalla giustizia, mentre i “pazzi” non hanno alcuna chance. Inoltre, vi sono certamente delle donne davvero “pazze” (oggi certamente non le chiameremmo più così, erano soltanto persone malate), ma neanche loro, dice l’autrice, dovrebbero essere trattate a questa maniera, subire maltrattamenti tali da essere più affini alla tortura vera e propria.

Questo è lo stato dei manicomi in America verso la fine dell’Ottocento e, dice Bly, grazie alla sua inchiesta lo stato di New York ha destinato un milione di dollari in più per il mantenimento delle persone “pazze” nei manicomi, che ovviamente per l’epoca è una cifra davvero considerevole. Questo perché, durante l’ispezione seguita all’inchiesta di Bly, i medici del manicomio hanno dichiarato che il trattamento inumano (certo non lo hanno definito così) era dovuto principalmente alla scarsità di fondi.

Viene da pensare che la situazione in Italia o nel resto dell’Europa non fosse all’epoca tanto differente. Da un lato vorrei leggere altri reportage o saggi sull’argomento, dedicati questa volta alla situazione italiana, dall’altro l’idea mi mette molta paura perché questa lettura è stata un pugno nello stomaco.

Consigliato, ma non per persone sensibili.