Maaza Mengiste, Il re ombra (Etiopia)

Per l’Etiopia, all’inizio del mio giro del mondo, mi ero segnata il nome di Maaza Mengiste. Ora ho trovato questo libro su MLOL e ho deciso di provare a leggerlo, grazie soprattutto al fatto che questo mese con il mio gruppo Libri dal mondo stiamo esplorando l’Etiopia.

È un romanzo abbastanza lungo e questa lunghezza si sente e non si sente. Intendo che a tratti può risultare un po’ pesante, sia per lo stile che per le vicende narrate, ma è talmente interessante che a volte si riesce a passarci sopra.

Lo stile di Mengiste è ricercato, poetico a tratti, rinuncia alle virgolette nei dialoghi (Saramago docet) e inframmezza i capitoli con interludi e cori, un po’ come se si trattasse di un’opera teatrale, quasi una tragedia greca. Tutto questo rende il libro molto particolare e per alcuni potrebbe risultare complesso da leggere. Non è certamente facile, ma dal mio punto di vista anche questo tipo di stile ha il suo perché. Non lo sceglierei se mi chiedessero quale sia il mio stile di scrittura preferito, ma non mi è dispiaciuto, devo dire.

Il romanzo segue le vicende di Hirut, una ragazza che vive come serva a casa di Kidane e Aster, dove lavora insieme alla cuoca, che resterà sempre senza nome. Aster è una donna collerica e viziata, che mi è rimasta estremamente antipatica anche se scopriremo che il suo carattere ha delle ragioni ben precise. Kidane mi è sembrato simpatico all’inizio, con il suo tentativo di proteggere Hirut a cui vuole molto bene, ma scopriremo ben presto che è un mostro. È un personaggio molto ambivalente perché da un lato viene presentato come l’eroe della resistenza etiope all’invasione italiana, dall’altro l’autrice non si preoccupa di nasconderne i tratti mostruosi. Io in definitiva l’ho odiato profondamente, l’ho trovato un personaggio spregevole, che cerca di ammantarsi di un’aura eroica quando, pur essendo il suo eroismo un sicuro dato di fatto, nella vita privata si rivela un essere orribile. Ho sofferto molto con Hirut durante tutto il libro.

Siamo negli anni Trenta, l’Italia invade l’Etiopia senza una dichiarazione formale di guerra, facendo uso di gas letali contro ogni accordo internazionale. Il mito degli “italiani brava gente” si sgretola in pochi secondi in questo libro: vediamo tutto quello che i nostri connazionali hanno fatto di orribile durante la guerra di Etiopia e non possiamo provare alcuna simpatia per nessuno di loro. L’unico italiano che spicca per avere ancora un po’ di sentimenti umani è Ettore Navarra, soprannominato Foto in quanto fotografo ufficiale dell’esercito italiano in Etiopia. Sicuramente è anche lui un personaggio ambivalente, si fatica a capire cosa si prova nei suoi confronti: da un lato fotografa in modo spassionato e indifferente esecuzioni e torture, dall’altro è preoccupato per i genitori ebrei rimasti in patria e a cui è legato da un profondo affetto. Sono pochi in realtà i personaggi non ambivalenti nel romanzo e uno di questi è sicuramente la protagonista Hirut.

Il romanzo narra inizialmente le vicende domestiche di Hirut, per poi passare ben presto a farsi canto della resistenza etiope e denuncia delle atrocità italiane. Molto interessante è il fatto che Mengiste ci mostra come nell’esercito etiope ci fossero anche molte coraggiose donne, tra le quali appunto Hirut e Aster. L’imperatore Hailé Selassié, che seguiamo negli interludi, passa invece come un uomo pavido, che è sì devastato dalla morte della figlia Zenebwork, ma anche privo di mordente, uno che fugge subito di fronte alle difficoltà, anziché schierarsi con il suo popolo in guerra.

In linea di massima l’ho trovato un buon romanzo, non indimenticabile ma sicuramente importante perché ci fa ben vedere come gli italiani non siano affatto stati “brava gente”, bensì dei mostri come tutti i colonizzatori. Inoltre mi è piaciuto il punto di vista diverso: l’autrice ha infatti scelto di non creare un protagonista uomo, cosa che ci si sarebbe potuti aspettare da un romanzo di guerra, ma una ragazza soldato, Hirut. Tutto sommato lo consiglio, fosse anche solo per la tematica importante.

Titolo: Il re ombra
Titolo originale: The Shadow King
Autrice: Maaza Mengiste
Traduttrice: Anna Nadotti
Casa editrice: Einaudi
Pubblicazione originale: 2019
Numero di pagine: 440

Valeria Montaldi, Il mercante di lana

Valeria Montaldi, Il mercante di lana, Piemme.

Avevo provato a leggere questo libro un paio di anni fa e non ero stata molto fortunata. È proprio vero che ogni libro ha il suo momento e quello non lo era. Lo avevo trovato noioso, all’epoca, e mi ero fermata ben presto. Invece ora la storia narrata da Valeria Montaldi mi ha appassionato moltissimo e l’ho trovata una lettura davvero interessante.

Frate Matthew è un frate benedettino nell’Inghilterra del XIII secolo: a un certo punto rimane invischiato nella storia di una donna che gli ha chiesto aiuto, una donna che sarà accusata di stregoneria e uccisa in nome di questa accusa. Il frate è costretto a lasciare l’amato convento e si reca nell’Europa continentale, dove una visione gli suggerisce di andare nel villaggio di Felik per convincere gli abitanti a scampare alla rovina. Il villaggio si trova in quella che oggi è la Valle d’Aosta ed è abitato dai Walser, chiamati con l’antico appellativo “walliser” nel romanzo.

Nel libro l’autrice alterna la narrazione della storia e degli avvenimenti dei vari personaggi, seguendo soprattutto frate Matthew e Sibilla, una giovane donna che abita nel villaggio di Felik. Gli abitanti di Felik e delle altre valli e villaggi hanno un ruolo molto importante nella storia e veniamo a conoscere molti di essi, fra comuni villici, mercanti (di lana, per l’appunto) e castellani. Ovviamente la storia di tutti questi personaggi finirà per intrecciarsi.

Mi è piaciuta molto la ricostruzione della vita nei villaggi e sulle strade in questo secolo che per i più è forse oscuro (non credo siano moltissimi i romanzi storici ambientati nel Duecento, o meglio ce ne sono di certo ma probabilmente non vanno per la maggiore, o forse sono solo io che non li conosco). La ricerca condotta dall’autrice è certosina, è un romanzo estremamente documentato e ben scritto. Se devo per forza trovare una pecca è il fatto che l’autrice pare ami abbondare con le virgole, il che a volte rende un po’ pesante la lettura, ma è certo un difetto di poco conto di fronte all’affresco eccezionale che crea davanti ai nostri occhi.

A questo libro fanno seguito altri tre capitoli della saga di frate Matthew, spero di leggerli presto perché mi interessa molto la sua storia.

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Questa lettura fa parte del mio tentativo di leggere più narrativa di genere; stavolta mi sono focalizzata su un romanzo storico.

Silvia Moreno-Garcia, Velvet Was the Night

Silvia Moreno-Garcia, Velvet Was the Night, Jo Fletcher Books, 2021.

Questo è il terzo libro che leggo di Silvia Moreno-Garcia ed è la conferma che adoro questa autrice. Sebbene i loro libri siano molto diversi, non posso fare a meno di pensare a Margaret Atwoood: due autrici in grado di destreggiarsi fra i generi più disparati e di eccellere in tutti.

Moreno-Garcia è messicana ma vive in Canada; scrive in inglese ma i suoi libri hanno un’ambientazione rigorosamente messicana. I suoi romanzi possono essere letti a un livello superficiale di intrattenimento, ma hanno sempre qualcosa sotto che li rende di maggior spessore, se solo si vuole andare un po’ più in profondità.

Dopo l’horror lovecraftiano di Mexican Gothic (unico suo libro tradotto in italiano) e il fantasy mitologico di Gods of Jade and Shadow, qui Moreno-Garcia ci propone un noir storico. (Ha scritto molti altri libri, ma cito solo questi perché sono quelli che ho letto).

I protagonisti di questo romanzo sono tre: Elvis, Maite e Leonora. Tutto ruota intorno alla scomparsa di Leonora, che però compare assai poco come personaggio, ma è invece presente con la sua assenza. Elvis è un giovane delinquentello di bassa lega, viene da un quartiere disagiato e viene poi reclutato da El Mago per fare qualcosa di più grande. Maite è una trentenne zitella (non single, ma qualcosa di peggio) che sogna sui fumetti rosa come “Secret Romance”. Entrambi sono molto appassionati di musica, che gioca un ruolo importante nel libro, tanto che l’autrice stessa ha creato una playlist su Spotify per accompagnare il romanzo.

Maite ed Elvis sono due personaggi che nuotano in una solitudine smisurata, più grande di loro. Si tengono a galla a stento, ma solo in apparenza: dentro, la loro vita è vuota, è un niente. Anch’essa è un’assenza.

I capitoli si alternano, uno dedicato a Elvis e l’altro a Maite, sempre narrati in terza persona. Devo dire che per un bel po’ ho provato più simpatia per Elvis, sebbene dovesse forse essere il contrario, poi però pian piano ho capito anche l’enorme solitudine e vuoto della vita di Maite e mi è stata più simpatica anche lei. Sono due perdenti, forse, e senza stile.

L’organizzazione di cui Elvis fa parte e che gioca un ruolo di primo piano nel libro è quella dei Falchi, Los Halcones, un’organizzazione paramilitare messa in piedi dal governo messicano con l’aiuto della CIA per combattere il comunismo. Los Halcones sono stati protagonisti, nei primissimi anni Settanta (periodo in cui è ambientato il romanzo), di innumerevoli violenze nei confronti dei comunisti o presunti tali, culminate nell’Halconazo, o massacro del Corpus Christi, in cui centinaia di studenti sono stati uccisi o brutalmente picchiati nel corso di una manifestazione. Questo evento apre il romanzo e ne costituisce il cardine.

Subito dopo questa strage, Leonora scompare, non prima di aver lasciato il suo gatto “per un paio di giorni” alla sua vicina di casa Maite. Quando Leonora non fa ritorno, tutti si metteranno sulle sue tracce, ma scovarla non sarà facile.

La scrittura di Silvia Moreno-Garcia è come sempre eccellente, e devo dire che in questo romanzo in particolare eccelle nelle descrizioni delle violenze e anche nell’unica breve scena di sesso, che pure riveste un ruolo importante nel prosieguo del romanzo. La caratterizzazione dei personaggi è impeccabile, ovviamente in particolare sono i due protagonisti a essere tratteggiati con maestria, anche se a volte alcune cose possono sembrare un po’ inverosimili, ma secondo me inserite nel contesto hanno senso. Leonora, come dicevo, è il personaggio intorno al quale tutto ruota, ma essendo preponderante la sua assenza, è meno caratterizzata rispetto a Maite e a Elvis, sebbene nel corso del romanzo ci rendiamo comunque conto di che tipo sia o possa forse essere. Resta comunque sullo sfondo, seppure in modo prepotente: senza di lei l’intero romanzo non esisterebbe.

Non vedo l’ora di leggere gli altri libri di Silvia Moreno-Garcia e spero che presto trovi la fama che merita anche in Italia con altre traduzioni dei suoi romanzi.

Hannah Kent, Ho lasciato entrare la tempesta

Hannah Kent, Burial Rites, Picador, 2013.

Ho lasciato entrare la tempesta è il titolo scelto da Piemme per la versione italiana, pubblicata nel 2014 e tradotta da Velia Februari. Uno dei pochi esempi in cui la scelta di un titolo che non c’entra niente con l’originale si è rivelata eccellente e perfino migliore dell’originale. Io ho letto il libro in inglese.

Hannah Kent è una scrittrice australiana che nel 2002, a 17 anni, ha trascorso un anno nel nord dell’Islanda come parte di uno scambio scolastico. Qui la giovane Kent ha trovato un paesaggio rurale, spettrale, oscuro e desolato; per i primi tempi si è sentita un’outsider, isolata. Forse proprio per questo quando le hanno raccontato la storia di Agnes Magnusdottir si è sentita attratta e incuriosita da questa donna che sembrava essere un’outsider come lei. Per questo motivo, quando nel 2010 ha dovuto iniziare a pensare alla stesura di un romanzo storico come parte del suo dottorato, le è venuta in mente proprio la storia di Agnes. Tutto questo è l’autrice stessa a raccontarlo nella nota finale, che è una versione condensata di questo articolo. Ho trovato estremamente interessante scoprire quale sia stato il processo che ha portato Kent a scrivere questo libro, tra l’altro l’autrice presenta se stessa in una versione molto “umana”, nel senso che non cede alla tentazione di magnificare se stessa come scrittrice, ma anzi ci fa vedere tutti i suoi difetti e i problemi incontrati nel processo creativo.

Fatta questa premessa, passiamo al romanzo vero e proprio.

Questa è la storia romanzata di un fatto realmente accaduto: nel 1830 Agnus Magnusdottir fu l’ultima persona a essere giustiziata in Islanda. La pena di morte nel paese fu abolita solo nel 1928, quasi un secolo dopo, ma in realtà era sempre stata applicata molto di rado. Agnes Magnusdottir fu condannata a morte per decapitazione, insieme a Fridrik Sigurdsson e Sigridur (Sigga) Gudmundsottir, per l’omicidio di Natan Ketilsson e Petur Jonsson, avvenuto due anni prima. Sigga ricevette la commutazione della pena di morte in ergastolo da scontare in Danimarca (all’epoca l’Islanda era sotto il dominio danese).

Stando alle ricerche condotte da Hannah Kent, Agnes era descritta da tutti come una donna malvagia, ma l’autrice in questo romanzo ha voluto restituire ambiguità al personaggio storico per toglierle la fama di donna orribile. Agnes resta un’assassina, ma i suoi motivi sono ben diversi da quelli che la gente ha scelto di attribuirle. Kent non pretende che questa sia una ricostruzione storica fedele: è semplicemente un romanzo e la sua libera, fantasiosa interpretazione del personaggio.

La scrittura di Kent è eccezionale, molto lirica e poetica, e sembra quasi richiamare i paesaggi aspri e crudeli in cui la storia è ambientata. La vita di Agnes è tragica fin dalla più tenera età, sembra quasi condannata a un’estrema infelicità, senza possibilità di appello, senza poter mitigare la pena. Tutto questo si riflette nel linguaggio e nel tono narrativo. La storia alterna un narratore esterno alla narrazione in prima persona di Agnes.

In attesa dell’esecuzione, Agnes viene posta sotto la custodia di una famiglia di Kornsa, che la accoglie assai malvolentieri. Eppure, al suo arrivo, Margret, la madre di famiglia, mostra un’umanità che non ci si sarebbe aspettati: rimane certo ruvida, ma si accorge subito del modo in cui era stata trattata la criminale fino ad allora, come una bestia, e si adopera per restituirle un minimo di dignità umana. Nel corso del libro assistiamo alla vita quotidiana di Agnes nella fattoria, inclusi i rapporti con la famiglia, composta da madre, padre e due figlie ventenni. Ci viene inoltre raccontata la sua storia, a partire dall’infanzia fino a quella terribile notte a Illugastadir, quando il suo padrone Natan viene ucciso nel sonno insieme all’amico Petur e la casa datta alle fiamme. La verità è un po’ diversa da come viene raccontata dai paesani e dalle autorità. La storia è raccontata da Agnes, spinta alla narrazione dal suo consulente spirituale, l’assistente reverendo Toti.

Kent restituisce l’umanità e la fragilità dei personaggi, nascoste dietro l’asprezza necessaria per sopravvivere al tempo e al luogo. Agnes è una figura a tutto tondo, con una storia vera e tragica alle spalle. Kent non aspira ad assolverla quando a umanizzarla, rendendola così oggetto di umana compassione. Kent sembra dirci: anche un’assassina è un essere umano e la verità potrebbe non essere scolpita nella pietra come le autorità vorrebbero far credere alla popolazione. La figura di Agnes è ambigua, proprio perché è un essere umano e quindi dotata di innumerevoli sfaccettature, che vanno tenute in considerazione per poter comprendere la persona e scinderla dal personaggio che sembra quasi costruito a tavolino per farne un monito per la popolazione.

Di fatto, oltre al resto, questa è anche una condanna della pena di morte. Le ultime pagine del libro, quelle in cui Agnes viene condotta all’esecuzione (direi che non è uno spoiler perché sappiamo che la sua fine è questa), sono estremamente toccanti. Kent non arretra di fronte a nulla: se la sua intenzione è quella di rendere umana Agnes, lo fa fino alla fine. Agnes è una persona come tutte, ha paura, è terrorizzata come lo sarebbe chiunque di fronte al destino che la attende. E questo l’autrice ce lo fa vedere in tutto il suo orrore, nell’immensità della sua sofferenza.

Tutto viene ammantato di religione in questi eventi, si dà grande importanza al ravvedimento finale e al conforto spirituale che però non deve mancare di severità. La religione è il fulcro di tutto. Questa è la giustizia di Dio. Eppure, a un certo punto Agnes riflette con Toti che, se Dio ha detto “non uccidere”, forse la pena di morte non era proprio fra i suoi piani. Forse uccidere una persona per punirla di aver ucciso non è giustizia divina.

Un libro davvero eccellente, sinceramente si fa fatica a credere che sia un libro d’esordio. Del resto Kent ha avuto come mentore Geraldine Brooks.

Se volete approfondire (in inglese), qui Hannah Kent risponde ad alcune domande. Invece qui l’autrice ha messo a disposizione alcune foto da lei scattate in Islanda, così possiamo visualizzare un po’ il contesto, l’ambientazione in cui il romanzo si svolge.

Bapsi Sidhwa, Il talento dei Parsi

Bapsi Sidhwa, The Crow Eaters, Milkweed Editions, 1992. Pubblicazione originale 1978.

I Parsi sono una comunità fuggita dall’Iran nell’VIII secolo, in seguito alla conquista islamica della Persia, e rifugiatasi in India, nel Gujarat. Ad oggi molti sono emigrati in altri Paesi del mondo, ma l’intera comunità resta sparutissima, circa 100.000 persone. I Parsi sono i seguaci dello zoroastrismo, o mazdeismo, e hanno addirittura un progetto dell’UNESCO interamente dedicato a loro, Parzor. Fra i Parsi famosi vanno citati Freddy Mercury e Zubin Mehta, oltre all’autrice di questo libro, Bapsi Sidhwa, una delle più famose scrittrici pakistane. Ora vive negli Stati Uniti e infatti scrive in inglese.

Non avrei saputo niente di tutto questo se non avessi letto questo libro, una saga familiare Parsi, che mi ha fatto nascere una grande curiosità nei confronti di questa comunità.

Protagonista del libro è Faredoon Junglewalla, un giovane Parsi agli inizi del Novecento: appena sposato decide di abbandonare il suo villaggio e trasferirsi a Lahore con moglie e suocera al seguito. Partono su un carretto, all’avventura, in cerca di fortuna. All’epoca il Pakistan non esisteva ancora e Lahore era in India, a sua volta parte dell’Impero britannico.

La suocera, Jerbanoo, ha appena undici anni più di Faredoon (detto Freddy), e la moglie Putli è una ragazza di appena sedici anni. Jerbanoo è il personaggio che più si attacca alla pelle quando si legge questo libro: antipaticissima senz’altro, ma bizzarra e in pratica macchiettistica. Rimasta vedova da poco, è costretta a seguire la figlia e il genero, estremamente controvoglia. Durante il viaggio nasce fra Jerbanoo e Freddy un odio che durerà in eterno, anche con risvolti drammatici. E tuttavia, sebbene gli avvenimenti drammatici non manchino in questo libro, rimane un romanzo leggero e spensierato, anche divertente.

La saga di Freddy è densa di avvenimenti che lo porteranno a diventare uno degli uomini più ricchi e influenti di Lahore. Freddy è, in generale, un personaggio che mi è stato simpatico, anche se ha dei tratti indubbiamente oscuri, in particolare c’è stato un episodio che mi ha dato molto fastidio, un fastidio quasi fisico. Da lì mi è diventato insopportabile, ma rimane comunque un personaggio scoppiettante e interessante da seguire.

Allo stesso modo seguiremo le avventure di uno dei suoi sette figli, ma non svelerò niente per non guastarvi il piacere della lettura.

Un romanzo molto interessante che, come dicevo, fa venire voglia di approfondire la conoscenza di questa comunità che agli occhi di noi occidentali non può che apparire bizzarra, con la sua adorazione per il fuoco e la sua fede cieca negli oroscopi, oltre alle curiose usanze come quella di disporre le salme dei propri defunti in delle “torri del silenzio” dove vengono lasciati agli avvoltoi.

[Libro pubblicato in italiano da Neri Pozza con il titolo Il talento dei Parsi e la traduzione di Luciana Pugliese.]