Jamaica Kincaid, Lucy (Antigua e Barbuda)

Jamaica Kincaid, Lucy (tit. originale Lucy), Adelphi, 2016. Traduzione di Andrea Di Gregorio. Pubblicazione originale 1990.

Lucy, di cui sapremo il nome solo nell’ultimo capitolo, è una ragazza di 19 anni che scappa dalla sua isola dei Caraibi (Antigua? nell’ultimo capitolo Lucy dà chiare indicazioni ma non ne dice mai il nome) per approdare negli Stati Uniti come ragazza alla pari. Qui, per un anno, si occupa delle quattro figlie di Mariah e Lewis e farà diverse esperienze che al suo paese non aveva avuto modo di fare: l’ascensore, l’inverno e l’avvicendarsi delle quattro stagioni, ecc. La famiglia che la ospita all’inizio sembra perfetta, ma presto Lucy scoprirà che è una perfezione di sola facciata.

Il libro, molto breve (neanche 100 pagine), è narrato in prima persona da Lucy che ci fa così entrare nelle sue esperienze. L’astio antico verso la madre, l’odio-amore per il suo paese, il disprezzo per chi vede la sua isola come un luogo turistico e basta, uguale tutto sommato alle altre isole dei Caraibi.

Il fatto che il romanzo sia molto breve secondo me non lo aiuta, nel senso che è ricco di potenziale ma lo sviluppa assai poco; in fondo è più un racconto che un romanzo vero e proprio. Avrei voluto potermi immergere di più nella vita e nei pensieri di Lucy, capire meglio il suo astio verso sua madre, scoprire cosa ama della sua isola, capire meglio le ragioni profonde di quello che fa una volta arrivata negli USA. Invece tutto questo è precluso al lettore e io l’ho trovato un vero peccato.

In ogni caso è un libro interessante che sono stata felice di aver letto, ma non l’ho trovato memorabile. Però sicuramente leggerò altro di questa autrice in futuro.

Gerald Durrell, La mia famiglia e altri animali

Gerald Durrell, La mia famiglia e altri animali (tit. originale My Family and Other Animals), Adelphi, 1990. Pubblicazione originale 1956. Traduzione di Adriana Motti.

Questo libro giaceva impolverato nella mia libreria, e più ci penso meno ricordo come ci è finito: regalo? Acquistato e se sì, quando e dove? Non saprei, so solo che non ha mai tanto catturato il mio interesse nonostante la fama di cui gode. Però finalmente mi sono decisa a leggerlo ed è stato uno di quei casi in cui mi sono chiesta: perché mai ho aspettato tanto? Ma in realtà ho aspettato proprio il momento giusto: ero giù, facevo fatica a concentrarmi anche sulla lettura, e questo libro mi ha aiutato tantissimo.

Come leggerete da tante altre parti, è un libro divertentissimo. Mi ha fatto proprio ridere di cuore. E nonostante io non sia appassionata di scienze naturali, è stata una lettura fantastica, secondo me fra le migliori dell’anno.

Gerald Durrell era un naturalista e zoologo britannico, fratello dello scrittore Lawrence, anche lui ritratto nel libro. Nel 1935, quando aveva 10 anni, si trasferì in Grecia con la famiglia, precisamente a Corfù. Perché? Semplicemente perché Larry, il figlio più grande, all’epoca ventitreenne, pensava che fosse una buona idea andare a stare in un posto meno umido e più assolato. Così, venduta la casa in Inghilterra, la famiglia al completo parte per Corfù: Gerald, la madre vedova e i fratelli Larry, Leslie e Margo. E il cane Roger.

Durrell narra qui alcune vicende dei suoi cinque anni trascorsi sull’isola, naturalmente all’insegna dell’amore sfrenato per gli animali, che lo porta a portarsi in casa le bestie più assurde: gabbiani, gazze, scorpioni e chi più ne ha più ne metta.

Ciascuno dei familiari di Durrell, ma anche gli altri personaggi, sono caratterizzati come delle vere e proprie macchiette, compreso lui stesso. Lui ama smodatamente gli animali, la madre adora cucina e giardinaggio, Larry è uno scrittore pieno di sé, Leslie va pazzo per la caccia, Margo ama esclusivamente la propria bellezza e le diete. Ogni personaggio risulta buffissimo e a volte tenerissimo. Ovviamente, in particolare ameremo Gerald/Gerry, ma anche gli altri sono eccezionali.

Le scene più divertenti per me sono state quella degli scorpioni, quella del console belga e quella del compleanno di Gerry.

Nel primo caso, Gerry decide di portare a casa una scorpionessa con relativi figli, nascondendoli in una scatola di fiammiferi per non far arrabbiare i familiari che sicuramente non sarebbero stati d’accordo. Però li dimentica lì finché Larry non fa per accendersi una sigaretta… segue il pandemonio.

Il console belga è la persona designata a insegnare il francese a Gerry (il quale pare un selvaggio e un ignorante, conosce solo gli animali e nient’altro). Va in giro in frac e ogni tanto, mentre fa lezione, spara dalla finestra, per poi tornarsene con le lacrime agli occhi. Grande amante dei gatti, spara ai gatti macilenti che ci sono in giro per il quartiere per non farli morire di stenti. Per giunta, è convintissimo che la madre di Gerry parli il francese e le fa lunghi discorsi a cui lei risponde con l’unica parola che conosce: “Oui oui”.

Durante la festa di compleanno di Gerry, infine, succede di tutto e di più (mai come durante il ricevimento alla fine del libro, comunque) e infine tutti si mettono a ballare danze greche, incluso il maggiordomo.

Mi rendo conto che a raccontarle così queste scene fanno forse appena sorridere, ma Durrell ha una verve comica irresistibile e come le racconta lui ci si può solo sbellicare dalle risate.

Inoltre, ovviamente questo libro è interessante anche dal punto di vista naturalistico, anche se va chiaramente ricordato che stiamo vedendo tutto con gli occhi di un bambino di dieci anni.

Non è un libro consigliato, è stra-consigliato!

Anna Wiener, La valle oscura

Anna Wiener, La valle oscura (tit. originale Uncanny Valley), Adelphi, 2020. Traduzione dall’inglese di Milena Zemira Ciccimarra.

Sarò sincera, questo libro è stato una tortura. L’idea era interessante: raccontare la Silicon Valley nel bene e soprattutto nel male, svelandone i lati oscuri. Il primo quarto del libro è stato, in effetti, abbastanza interessante. Poi ha cominciato a ripetersi e a sbrodolare, fino a diventare un intruglio insopportabile. Non come quando mandi giù una medicina amara, no: la medicina fa schifo ma almeno serve, questo invece non serve proprio a niente.

Anna Wiener ha 25 anni e lavora nell’editoria a New York. A un certo punto, non è che si capisca bene perché, decide di lasciare New York (da cui non era mai uscita!) e di trasferirsi a San Francisco per lavorare nel settore del tech. Per i soldi, pare di capire. Non per il successo, proprio e solo per guadagnare di più. Legittimo. Wiener però non ha alcuna formazione di tipo tecnologico, non è programmatrice, non è ingegnere informatico, è un’umanista e le piacciono i libri. Tuttavia, trova lavoro in un’azienda di analisi dati prima, e in un’azienda di software open source poi, anche se ovviamente non in un ruolo tecnico.

Ed ecco subito la cosa più irritante di questo libro: Wiener non nomina mai nessuna delle aziende di cui parla. Non solo quelle per le quali ha lavorato (che avrebbe anche potuto avere senso, se avesse rivelato qualche grande segreto, ma ci torno fra un attimo), ma neanche quelle che cita di sfuggita o che c’entrano molto relativamente con il suo lavoro, essendo più che altro parte della quotidianità di ciascuno. Per esempio, “il social network che tutti odiavano”. Mica Facebook, no? “Il grande negozio online”. Oddio, che grande ed efficace modo di nascondere che sta parlando di Amazon. E così via. Nessuna, dico nessuna azienda ha un nome. Ma dirò di più, proprio niente ha un nome. A un certo punto un personaggio cita una famosa frase del Trono di Spade, ma mica penserete che Wiener possa nominare il titolo del romanzo? Certo che no, è semplicemente “un famoso romanzo fantasy”.

Allo stesso modo, pochissime delle persone di cui l’autrice parla vengono chiamate per nome. Solo i suoi amici e il suo fidanzato. In questo caso potrebbe avere senso per dare l’idea della spersonalizzazione attiva nella Silicon Valley, invece visto quanto sopra ha senso probabilmente solo nella testa dell’autrice.

Comunque, se proprio siete curiosi, qui c’è chi si è preso la briga di identificare tutto e tutti. Diciamo però subito che nella maggior parte dei casi, qualunque persona frequenti internet capirà perfettamente di che aziende si sta parlando, vedi gli esempi sopra. Quindi, esercizio del tutto inutile se non per irritare i lettori. O almeno me.

Detto questo, il rischio di un libro come questo era dietro l’angolo: finire per suonare come il racconto (a quanto pare è un memoir, dice il sottotitolo dell’edizione originale) di una persona privilegiata, annoiata, che vuole i soldi ma allo stesso tempo aborre il modo per guadagnarli, e schifa tutti quelli che come lei vogliono i soldi. In effetti spesso schifa anche se stessa, quindi un minimo di autocritica c’è, però sembra più di superficie che di sostanza, onestamente. Il succo, in ogni caso, è: la Silicon Valley e l’industria del tech fanno schifo. Va bene, è il suo punto di vista.

Ora, tante delle cose che Wiener racconta possono essere interessanti per chi non conosca quel mondo, però sarebbe bastato un articolo di giornale, per la miseria. Altro che 300 pagine. Tuttavia, seppure molto parzialmente e incidentalmente, è un mondo di cui ho avuto una minima esperienza avendo lavorato per una delle tante aziende che cita, seppure in Europa e non in America, quindi le cose erano parecchio diverse, anche se con un fil rouge comune. Tuttavia, per me non è stato un libro che mi ha aperto gli occhi su qualche realtà totalmente aliena. Ma a dire il vero, fatico a pensare che possa esserlo per qualcuno.

Infatti, Wiener non racconta niente, sostanzialmente. Se non le sue giornate passate a rispondere alle richieste di assistenza, gli amministratori delegati che si credono dio, la finta superiorità dei colleghi e in particolar modo di quelli che sono davvero “tecnici”, l’alienazione data dalla continua commistione tra lavoro e tempo libero. Eccetera. Niente di eccezionale, niente che non abbiamo già sentito da altri mille articoli o persone che in quel mondo hanno lavorato. Wiener non svela niente. Non ci sono rivelazioni dove uno dice “ah! oooh!”. Wiener non è una whistleblower, ma neppure ci si avvicina a una distanza di diecimila chilometri. Wiener parla della sua vita, che è una vita noiosa e come quella di tanti altri lavoratori di start-up o multinazionali di stampo americano. Niente di nuovo sotto il sole, ve lo assicuro.

Inoltre, l’autrice è vagamente ossessionata dal sessismo, ma in maniera un po’ incidentale, come se ogni tanto si svegliasse dal suo soporifero racconto e si ricordasse che doveva parlare di sessismo nella Silicon Valley e nel tech. Non metto in dubbio che sia un settore sessista, dato che è in prevalenza maschile. Anzi, ne sono abbastanza sicura. Ma mi dispiace dirlo, gli episodi raccontati dall’autrice non sono particolarmente sessisti. Come dice questa recensione di una donna femminista e vittima di vere discriminazioni sessiste e razziste, affermare che ogni minima cosa sia sessista o razzista riduce il potere della lotta contro le vere discriminazioni. Mio pensiero da sempre, ma fa brutto dirlo, anzi in certi ambienti è proprio vietato, tabù.

Se proprio vi sentite interessati, qui ci sono molti estratti dall’originale inglese. Qui invece c’è una bella recensione di una persona a cui il libro è piaciuto. Io però mi sento di consigliarvi di impiegare in altro modo il vostro tempo.

Georges Simenon, Pietr il Lettone – 1931

Georges Simenon, Pietr il Lettone (tit. originale Pietr-le-Letton), Adelphi, 2011. Traduzione di Yasmina Mélaouah. Pubblicazione originale 1931.

Questo è il terzo libro che leggo di Simenon (il secondo della serie di Maigret) e ormai mi devo rassegnare al fatto che fra me e questo autore non c’è feeling. Nessuno dei tre libri che ho letto mi ha entusiasmato, anzi.

Questo romanzo è il primo con protagonista Maigret. Le indagini si incentrano sulla figura del cosiddetto “Pietr il Lettone”, un uomo di cui si sa ben poco tranne la sua appartenenza al mondo criminale internazionale. La polizia di tutta Europa segnala che l’uomo è in viaggio verso Parigi, e quando arriva è ovviamente Maigret a occuparsene.

Fra omicidi, appostamenti, eccetera, identificare il vero Pietr il Lettone è un’impresa, dato che sembra quasi sdoppiato in due persone: un uomo ricco ed elegante, e un ubriacone povero e irrecuperabile.

Purtroppo, sebbene la storia del doppio promettesse di essere veramente interessante, questo romanzo non mi è piaciuto né per il suo valore letterario né come giallo. L’ho trovato noioso, un po’ difficile da seguire, e non mi è piaciuta nemmeno la scrittura.

A questo punto dubito che darò altre chance a Simenon. Mi dispiace andare contro l’opinione comune, ma evidentemente proprio non fa per me.

Robert Walser, Der Spaziergang (Svizzera) – 1917

Robert Walser, Der Spaziergang, Huber & Co., Frauenfeld – Lipsia 1917.

Libro pubblicato in italiano da Adelphi con il titolo La passeggiata e tradotto da Emilio Castellani.

«Senza passeggiare sarei morto, e il mio mestiere, che amo appassionatamente, sarebbe annientato».

La traduzione di questa breve riga è mia, perché ho letto il libro in tedesco e non ho sotto mano l’edizione italiana.

Ho letto questo breve libro con passione. Non nel senso di appassionatamente, ma nel senso di passione dolorosa, tremenda sofferenza. Meno di 100 pagine in tre giorni. Una tortura. Mi chiedo come mai ultimamente la letteratura di lingua tedesca mi stia deludendo in modo così cocente. Recentemente non mi è piaciuto La Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth, ma questo di Walser lo batte di sicuro. Un po’ me ne vergogno, io che sono laureata in letteratura tedesca. Due grandi nomi come Joseph Roth e Robert Walser, e non apprezzarli.

Il protagonista di questo romanzo breve esce a fare una passeggiata e, come ci spiegherà ben oltre la metà del libro, questo tipo di attività è per lui fondamentale, lo è soprattutto per la sua scrittura. Probabilmente per l’autore era la stessa cosa, e questo protagonista/narratore non è che un alter ego di Robert Walser.

Durante la sua passeggiata il protagonista incontra varie persone, con cui si ferma a parlare: una donna che gli sembra un’attrice, una ragazza che sta cantando, un libraio, una donna che lo aveva invitato a pranzo, ma anche un cane, e altri personaggi ancora. Le conversazioni che l’uomo ha con queste persone sono un po’ particolari, nel senso che non hanno nessuna caratteristica di oralità, anzi sono verbosissime e siamo di fronte a un linguaggio che non potrebbe essere che scritto, mai parlato. Già questo mi ha disturbato, non c’è alcuna verosimiglianza, anche se probabilmente la verosimiglianza non era affatto l’intento dell’autore. La verbosità di queste conversazioni, che non sono monologhi ma quasi, mi ha annoiato da morire. È vero, c’è ironia in quello che il protagonista dice, alcune conversazioni ci potrebbero far sorridere, come quando la donna che lo ha invitato a pranzo gli dice che non lo farà alzare dal tavolo finché non scoppierà, o quando entra in libreria per cercare il bestseller del momento, solo per poi posarlo e andarsene una volta che il libraio glielo ha procurato. Eppure io l’ho trovato un linguaggio pomposo e inutilmente imbellettato, che non è stato per niente di mio gradimento.

Robert Walser era apprezzato da moltissimi autori, ma questo libro non mi ha lasciato niente, purtroppo. Nel Kindle ho anche Jakob von Gunten, quindi darò un’altra chance a questo autore, ma non subito. Bisognerà che aspetti un po’.