Quando nasci è una roulette

cl241x168_288Quando nasci è una roulette, a cura di Ingy Mubiayi e Igiaba Scego, Terre di Mezzo, Milano 2007. 101 pagine, 7 euro.

Questo libro, ormai un po’ vecchio ma sempre attuale, raccoglie le tesimonianze di sette ragazzi, giovani e meno giovani, che vivono in Italia da anni: tutti figli di migranti, a volte, ma non sempre, ragazzi di seconda generazione, che in Italia sono nati e cresciuti. Le curatrici sono a loro volta due donne di seconda generazione, cresciute e, nel caso di Scego, anche nate in Italia.

Il libro si apre con una premessa molto interessante ma anche dura: due monologhi immaginari, prima di un italiano, e poi di uno straniero, i quali entrambi parlano di ipotetiche persone italiane ma di origine straniera. L’italiano, come possiamo facilmente immaginare, pensa che queste persone siano tutti terroristi, le ragazze tutte prostitute, e giù altri stereotipi razzisti di questo tipo. Quello che può sorprendere il lettore italiano è che anche lo straniero pensa più o meno cose simili degli italiani di origine straniera: cioè è vittima di stereotipi simili seppure diversi, quindi ad esempio queste persone puzzano, non sono come loro, sono diverse e, in ultima analisi, non vanno bene. Naturalmente, come dicono le curatrici stesse, si tratta di macchiette portate all’estremo, per cui difficilmente si incontreranno persone che abbiano davvero idee così estreme. Anche se sugli italiani non ci giurerei, francamente.

Le curatrici hanno deciso di dare voce soltanto a ragazzi di origine africana, forse perché sono quelli che spiccano di più in un’Italia di “bianchi”, forse perché loro stesse sono entrambe di origine africana, e quindi è un mondo e un’esperienza in cui si potevano rivedere meglio.

Le voci di questi ragazzi sono davvero interessanti e andrebbero lette per intero. Purtroppo il libro è fuori catalogo, ma se vi capita di trovarne una copia ve lo consiglio, anche se certo ormai ci saranno libri più recenti sull’argomento. Ma la forza di questo libriccino è appunto che dà voce ai ragazzi di seconda generazione stessi. Che dunque non si esprimono attraverso il filtro di una persona esterna, ma raccontano in prima persona le loro esperienze.

Quello che più mi ha colpito è che solo due di questi ragazzi parlano di integrazione. Una tunisina senza nome, in Italia da soli sette anni e quindi non di seconda generazione, la trova una cosa bella, perché secondo lei significa venire accettata pur con le sue tradizioni e credenze, non venire per questo esclusa o disprezzata dagli italiani. Invece Sophia, eritrea nata e cresciuta a Roma, pensa che integrazione sia una brutta parola, una parola negativa. Perché, dice lei, «io non voglio diventare parte di niente, voglio rimanere me stessa in un determinato contesto». Eppure, fra le due, forse è proprio lei la più integrata nel senso comune della parola. Nata a Roma, ha amici italiani, interessi italiani, tradizioni italiane eccetto il cibo, ambito in cui preferisce senz’altro quello eritreo, perché non fa ingrassare. La ragazza tunisina invece è fieramente musulmana, molto praticante, il che non le impedisce certo di essere amica di italiani e di frequentare un’università italiana, ma alle superiori ha fatto la scuola araba e non è disposta a rinunciare ad alcune sue credenze profonde. Eppure è proprio lei ad amare l’integrazione, mentre Sophia disprezza il concetto.

Questo porta a riflessioni molto interessanti. Tra l’altro io francamente sono d’accordo con Sophia, all’integrazione preferisco il multiculturalismo, mi piace di più che le culture si incontrino piuttosto che fondersi l’una nell’altra. È vero che quando si va in un paese bisogna rispettare le regole e le tradizioni di quel paese, ma a me piace che si faccia questo mantenendo salde le proprie tradizioni. Senza dunque annullarsi nella cultura ospitante, senza diventarne parte indistinta e indistinguibile, ma aggiungendo, apportando qualcosa di proprio a quella cultura.

Quello che è bello e interessante di questo libro, e il motivo per cui tutti dovrebbero leggerlo, è che questi ragazzi sono squisitamente normali e ordinari, non hanno proprio niente di diverso dai loro corrispettivi italiani. E anzi, molti sono più italiani di chi è italiano da generazioni, conoscono la storia, la cultura, c’è un ragazzo che da bambino faceva i temi sul Risorgimento e sulla storia d’Italia. La cosa drammatica è che, pur essendo così profondamente italiani, questi ragazzi non hanno il diritto di essere italiani per la legge, e anche quando acquisiscano questo diritto, sotto forma di cittadinanza e dunque di passaporto, vengono comunque trattati a pesci in faccia, non tanto dai loro coetanei quanto piuttosto dalla pubblica amministrazione, dalle banche, da istituzioni insomma che dovrebbero essere al di sopra del quotidiano razzismo strisciante.

Molti dicono che i ragazzi della loro età non sono razzisti, o non particolarmente, e che a volte si atteggiano a razzisti solo per ridere, mentre invece con le persone anziane è diverso, sono più chiuse. Questo è vero anche perché, come dice uno di loro, l’Italia è un paese in cui l’immigrazione è un fenomeno recente, e la gente, soprattutto quella di una certa età, si deve ancora abituare, e deve farlo pian piano.

Si potrebbero dire tante altre cose su questo piccolo ma prezioso libro, ma per adesso mi fermo qui, invitandovi di nuovo caldamente a leggerlo o a leggere libri di stampo simile, se non riuscite a procurarvi una copia di questo.

Marisa Fenoglio, Vivere altrove

Marisa Fenoglio, Vivere altrove, Sellerio, Palermo 2010. 196 pagine, 10 euro.

Nel 2011 sono andata in Lussemburgo con in tasca un contratto di lavoro a tempo indeterminato, pensavo di restarci “per tutta la vita” (o quasi), invece me ne sono andata dopo due anni. Resta comunque il fatto che sono molto interessata alle testimonianze di chi “vive altrove”, come recita il titolo di questo libro. Perciò ho letto con molto piacere questo libro di Marisa Fenoglio.

Marisa Fenoglio se n’è andata dalla sua Alba nel 1957, al seguito del marito che veniva mandato dalla sua ditta in una neonata succursale di Niederhausen come dirigente. Un’emigrazione dunque lontana da quella quasi coeva dei Gastarbeiter, un’emigrazione che potremmo definire di lusso, sebbene molti dei problemi, primo tra tutti quello dell’appartenenza, restino simili se non uguali.

Niederhausen è, a detta dell’autrice, «l’ultimo fanalino del mondo», un posto che non è città né campagna, ma più vicino comunque al nostro concetto di campagna. L’autrice ci narra la storia della sua permanenza in Germania, con tutte le vittorie e le sconfitte del caso, con tutti i problemi, le preoccupazioni, ma anche le gioie. Una permanenza segnata dalla musica, che avvicina Marisa alla Germania con le note di Bach, Beethoven e gli altri grandi compositori tedeschi. Una permanenza durante la quale l’autrice arriva a comprendere che «la patria non è solo una terra, un paesaggio, una famiglia, la patria è soprattutto una lingua». Come hanno compreso molti altri grandi autori prima di lei, certo, ma è un concetto sempre interessante. Penso ad esempio a Elias Canetti, autore che Fenoglio cita un paio di volte rendendogli esplicito omaggio, il quale fece del tedesco la propria patria.

Interessante anche una conversazione che l’autrice ha con un poliziotto, con il quale parla della Sehnsucht, questa parola tedesca intraducibile in italiano, che indica la nostalgia ma anche il desiderio, l’anelito, lo struggimento. Da questa conversazione l’autrice arriva alla conclusione che ogni lingua ha le proprie parole intraducibili perché in sé perfette, e rende infine omaggio ai traduttori:

«Io provo rispetto per i grandi traduttori», esclamai allora. «Tradurre gli apici di una lingua in apici di una seconda, è come librarsi nel vuoto per passare dalla cima del Monte Bianco alla punta del Cervino. Pochissimi ci riescono. Il grande traduttore è un essere solitario che sa stare a grandi altezze, è quel ponte sospeso nel vuoto, su cui l’umanità si appoggerà per attingere alla bellezza delle vette. […]»

Inutile dire che, vista la mia professione, io provo grande rispetto per tutti i traduttori, non solo quelli grandi e non solo quelli che traducono gli apici di una lingua negli apici di una seconda, ma per tutti coloro che traspongono concetti in altri concetti.

Un libro, insomma, piacevole, sebbene non sia esente da pecche, come ad esempio il finale un po’ “tagliato con l’accetta”. Lo consiglio a tutti coloro che siano interessati alla vita vissuta altrove, a capire cosa si prova, che problemi si affrontano, sebbene in questo caso il punto di vista sia sicuramente quello di una persona privilegiata.

[Questo post è pubblicato anche sul mio neonato sito personale di lavoro, di cui vi invito a prendere visione se lo vorrete.]