Ilaria Tuti, Ninfa dormiente

Ilaria Tuti, Ninfa dormiente, Longanesi, 2019.

***Attenzione: alcune parti di questa recensione sono spoiler. Non vi svela chi è l’assassino ma forse potreste preferire leggerla solo dopo aver letto il libro.***

Dopo aver amato moltissimo Fiori sopra l’inferno, ero veramente curiosa di leggere questo secondo capitolo della “serie” di Teresa Battaglia (tra virgolette, perché non so se l’autrice ha intenzione di scrivere altri libri con la stessa protagonista).

Resto del parere che Ilaria Tuti sia una scrittrice eccezionalmente dotata, cosa tra l’altro di cui si è reso conto mezzo mondo, visto che il suo primo libro è stato tradotto in moltissime lingue e anche questo vanta già diverse traduzioni. Tuttavia, temo che questa fama, forse inaspettata dalla stessa autrice, abbia un po’ nuociuto alla riuscita del romanzo. Come ho letto in altre recensioni, a tratti la scrittura e la trama sembrano davvero un po’ troppo ammiccanti. Faccio un esempio banalissimo: a un certo punto vengono menzionati dei fantomatici “paramedici”. Peccato che questa figura, spiccatamente anglosassone, in Italia non esista: però è un ottimo termine se l’intento è fare presa su un pubblico anglosassone, no? Oppure, vogliamo parlare delle decine di colpi di scena che lasciano con il fiato sospeso alla fine di ogni capitolo?

A mio parere, il principale pregio di Tuti è la capacità di dare particolare rilievo all’ambientazione, che normalmente sarebbe secondaria in un thriller. In questo romanzo l’ambientazione è di nuovo quella delle montagne friulane, e l’autrice è davvero brava a trasportare il lettore in quei paesaggi meravigliosi.

Un’altra cosa che mi è piaciuta tantissimo e che ho trovato affascinante è stata l’enfasi sulla cultura resiana, che sentivo nominare per la prima volta. La Val Resia è una valle del Friuli, la cui popolazione è del tutto particolare e, se ho ben capito, risulta tuttora un mistero per gli studiosi. Il patrimonio genetico dei resiani è diverso da quello di qualsiasi altra popolazione europea, e non si capisce bene da dove siano arrivati gli abitanti di questa valle, sebbene ci siano numerose ipotesi. Anche la lingua resiana è del tutto particolare, trattandosi di una lingua protoslava. Molti la ritengono un dialetto sloveno, ma a quanto pare si è sviluppata prima ancora che lo sloveno nascesse come lingua, quindi l’ipotesi pare un po’ opinabile. Un personaggio del libro parla anche di questo e l’ho trovato estremamente interessante. Tra l’altro, l’UNESCO, nell’Atlante mondiale delle lingue in pericolo, la classifica come lingua “seriamente in pericolo”, in quanto parlata da appena un migliaio di persone.

Fino ai due terzi ho apprezzato moltissimo il libro, sebbene non privo di qualche sbavatura. Esempio: da un’autrice che, come dicevo recensendo il romanzo precedente, sembra avere un’approfondita conoscenza della psicopatologia, francamente non mi aspettavo l’uso del termine “borderline” per definire uno psicopatico. I borderline sono già abbastanza stigmatizzati senza l’aiuto dei romanzi, grazie. Oppure: ma veramente qualcuno può credere che un trauma profondo, che ha plasmato e tormentato l’intera esistenza di una persona per anni, possa essere risolto in qualche manciata di minuti solo grazie alla rassicurazione di una persona cara? Dato il mio interesse per la psicologia, questi scivoloni mi sono davvero dispiaciuti. E tuttavia, questo non ha troppo pregiudicato il piacere della lettura.

Passati i due terzi, purtroppo, questo piacere è declinato rapidamente. La risoluzione del mistero è arzigogolata, ci sto pensando da quasi ventiquattr’ore e ancora faccio un po’ di fatica a mettere insieme tutti i fili. E attenzione: non sto dicendo che la soluzione sia ingegnosa, non è il classico “non ci sarei mai arrivato” che porta ad apprezzare l’inventiva di uno scrittore di thriller/gialli. No, è proprio un arzigogolo pazzesco che si segue a fatica.

Altra obiezione che ha contribuito fortemente a diminuire il mio giudizio sul romanzo: tutto il discorso sul culto della dea e la gioia di essere madre. Ilaria Tuti, nella postfazione, cita Marija Gimbutas: caso ha voluto che proprio due o tre settimane fa io avessi letto un lungo articolo sul suo lavoro relativo all’Europa Antica, qui citata più volte. In soldoni, ma proprio in estrema sintesi, Marija Gimbutas è stata un’archeologa e antropologa che ha teorizzato l’ipotesi Kurgan, studiando la diffusione della lingua e cultura indoeuropea in Eurasia e ipotizzando una società matriarcale distrutta dai popoli da lei chiamati Kurgan. Ora, nell’articolo che ho letto e che purtroppo non saprei come ritrovare, si spiegava come questa teoria sia estremamente controversa e, sebbene alcuni studiosi la paragonino per importanza al ruolo avuto dalla Stele di Rosetta nella comprensione dei geroglifici, mi è parso di capire che gran parte del mondo accademico la consideri una teoria a dir poco bizzarra e sostanzialmente assurda. Tanto che quello che ho desunto dall’articolo è che studiose come Gimbutas hanno recato grave danno al femminismo, con le loro teorie basate su una distorsione dei fatti, nell’intento di perorare l’idea che la civiltà primigenia fosse matriarcale e non patriarcale. Naturalmente non so niente di antropologia e archeologia, quindi magari quell’articolo era di parte, però mi sento di dire che magari l’idealizzazione del mito della donna-dea-madre possa essere controproducente.

Il mio giudizio complessivo sul libro è positivo, però devo ammettere che passato un giorno dal termine della lettura mi sto intiepidendo.

Ilaria Tuti, Fiori sopra l’inferno

Ilaria Tuti, Fiori sopra l’inferno, Longanesi, Milano 2018.

Apparentemente questo thriller è il caso editoriale dell’anno e già varie case editrici straniere ne hanno acquistato i diritti di traduzione. Dico “apparentemente” perché io non ne sapevo niente: come sapete non mi interessano minimamente i bestseller del momento, non seguo le classifiche di vendita, non mi incuriosiscono i libri messi in primo piano in libreria. Sono dunque arrivata del tutto impreparata a questo romanzo. Mi è stato consigliato su Goodreads da qualcuno di cui purtroppo non ricordo il nome. L’ho trovato intrigante, anche perché mi è stato detto che c’erano delle bellissime descrizioni di paesaggi di montagna, perciò ho voluto provare.

Non so quante volte mi sia capitato di essere letteralmente travolta e frastornata da un bestseller. È vero, sono un po’ snob forse, ho sempre il sospetto che i libri “rivelazione” siano specchietti per le allodole. E invece, quanto mi sono dovuta ricredere in questo caso! Un caso di libro realmente bellissimo, forse addirittura eccezionale. Non so se sono spinta dall’emozione del momento a definirlo così (ne ho appena terminato la lettura), solo il tempo saprà dire se sarà un romanzo che resta oppure no. Ma secondo me, adesso, Ilaria Tuti non ha niente da invidiare a tanti autori americani. Penso per esempio a Riley Sager, autore di un altro thriller “rivelazione”, Final Girls. Le sopravvissute, che ho letto due mesi fa trovandolo assai debole.

La protagonista di questa storia, che almeno per ora non è una serie, è Teresa Battaglia, un commissario di polizia ormai di una certa età, fiera, battagliera, tostissima, ma anche, sotto sotto, tanto fragile. Insieme a lei c’è la sua squadra di polizia e il nuovo, giovane ispettore Massimo Marini venuto da un’altra città. A Travenì, paese inventato che porta i tratti di qualche piccolo paese del Friuli montano, c’è stato un brutale omicidio, e la squadra di città comandata da Teresa Battaglia è chiamata a investigare.

Il libro non risparmia particolari violenti: è pur sempre un thriller, non un giallo, perciò la violenza c’è e si vede. Vedremo, tuttavia, quanto la violenza psicologica possa risultare persino più brutale e aberrante di quella fisica.

L’autrice scrive in maniera che oserei definire pressoché perfetta, in particolare trovo che abbia un vero dono per i dialoghi, che suonano sempre naturali grazie alle scelte stilistiche colloquiali a volte anche a spese della correttezza grammaticale. Qualcosa di veramente raro: è mio parere personale che gli autori odierni (non parliamo di quelli “classici”, perché un tempo i dialoghi erano quanto di più innaturale si possa immaginare) non siano il più delle volte in grado di scrivere dialoghi convincenti, che suonino davvero naturali.

Le descrizioni dei paesaggi montani invernali sono bellissime. Io un po’ conosco quelle zone, anche se certamente non posso dire di conoscerle bene, e mi è sembrato di rivederle leggendo questo romanzo. Fa sicuramente venire voglia di andare in quei luoghi, sebbene la gente del posto non sia certo descritta in maniera positiva, risultando invece chiusissima, ottusa e omertosa.

Inoltre, la trama, lo svolgimento, la scoperta del colpevole, tutto è perfetto e assolutamente imprevidibile. Nessuno potrebbe mai dire di essere riuscito a capire chi sia l’assassino prima che questo ci venga svelato. Mi sento di dirlo con certezza. C’è poi un altro “cattivo” che forse è meno difficile da scoprire, ma non per me, che sono completamente cascata dalle nuvole.

Un thriller originalissimo, se lo leggerete capirete perché mi spingo fino a dire che a nessun altro scrittore sarebbe venuta in mente un’idea tanto particolare per un romanzo. Ilaria Tuti dimostra un’ottima conoscenza della storia e soprattutto della psicopatologia, da cui ha attinto a piene mani per questo romanzo.

Se o quando questa autrice scriverà altro, lo voglio assolutamente leggere.

Libri ambientati in Friuli-Venezia Giulia

Castello di Miramare, Trieste (foto mia)
Castello di Miramare, Trieste (foto mia)

Oggi andiamo con il nostro giro d’Italia in Friuli-Venezia Giulia, regione che ho frequentato parecchio dal momento che ho vissuto a Trieste (città che mi è molto cara) per quasi un anno e che ho frequentato un ragazzo udinese per tre anni. Parliamo di qualche eone fa, e infatti l’ultima volta che sono stata a Trieste credo sia stato nel lontano 2007, anno in cui è stata scattata la foto qui sopra. Mi piacerebbe molto tornare da quelle parti, davvero ogni occasione sarebbe buona.

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Italo Svevo, La coscienza di Zeno, varie edizioni: Rimasto incompreso per lungo tempo, La coscienza di Zeno è il più importante romanzo di Svevo e uno dei capolavori della letteratura italiana contemporanea. È il resoconto di un viaggio nell’oscurità della psiche, nella quale si riflettono complessi e vizi della società borghese dei primi del Novecento, le sue ipocrisie, i suoi conformismi e insieme la sua nascosta, tortuosa, ambigua voglia di vivere. L’inettitudine ad aderire alla vita, l’eros come evasione e trasgressione, il confine incerto tra salute e malattia divengono i temi centrali su cui si interroga Zeno Cosini in queste pagine bellissime che segnarono l’inizio di un modo nuovo di intendere la narrativa. Primo romanzo “psicoanalitico” della nostra letteratura, quest’opera rivoluzionaria seppe interpretare magistralmente le ansie, i timori e gli interrogativi più profondi di una società in cambiamento.

Jan Morris, Trieste, Il Saggiatore: In questo libro Jan Morris racconta, fondendo la melanconia dei propri ricordi di viaggiatrice e la passione della storica, l’intenso rapporto con Trieste, la propria vita attraverso quella della città, dei suoi conflitti del suo splendore e del suo declino. Muovendosi nel tempo, evocando i caffè e i moli visitati da Joyce, l’autrice passa per gli anni ’40, quando vide Trieste per la prima volta e arriva al presente di questa città fuori dal tempo. Trieste è una città in nessun luogo, un luogo dove ciascuno è libero di vivere senza costrizioni, di scoprire la propria identità più autentica. La Trieste, di Jan Morris, è la città ideale per spiriti erranti, solitari e rinnegati, per tutti coloro che non trovano un proprio luogo su nessuna mappa.

Mauro Covacich, Trieste sottosopra, Laterza: “Accanto alla Trieste austroungarica è sempre esistita un’altra Trieste. Accanto alla città dei caffè letterari, della composta amicizia di Svevo e Joyce, c’è sempre stata un’altra città, morbida, disinvolta, picaresca, dai connotati quasi carioca. C’è un edonismo antico, morale, nei triestini. E anche un vitalismo moderno un po’ easy-going, alla californiana. Trieste è una città meridionale, la città più meridionale dell’Europa del Nord.” A spasso per vicoli e piazzette, lungo gradinate a picco sui mare, bighellonando nella bora che spezza il fiato e pulisce l’aria: quindici itinerari narrativi svelano e ricompongono il puzzle affettivo e affettuoso di una Trieste ricolma di storia, curiosità, contraddizioni.

Veit Heinichen e Ami Scabar, Trieste. La città dei venti, e/o: Su un molo del porto di Trieste non a caso c’è una rosa dei venti: Trieste è la città dei venti. Che si tratti di bora, libeccio, scirocco o maestrale, tutti questi venti hanno contribuito a portare da ogni punto cardinale le più diverse tradizioni culinarie e culturali nella città portuale italiana. Nelle vigne sul Carso affacciate sulla città, nelle saline e nei villaggi di pescatori sull’Adriatico o nel corso di passeggiate sulle tracce di Svevo, Rilke e Joyce, Veit Heinichen e Ami Scabar ci invitano a scoprire attraverso tutti i sensi il mito di Trieste.

Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi: Angelo Ara e Claudio Magris si sono proposti di indagare proprio la peculiarità del «caso Trieste», studiandolo nella sua storia e nelle testimonianze letterarie. Ecco dunque l’unicità, – a sua volta spesso mitizzata – di un crocevia che rispecchia le tensioni europee, che fonde – spesso drammaticamente – culture ed etnie diverse, e in cui possono convivere l’irredentismo e il culto di Francesco Giuseppe, il cosmopolitismo e la chiusura municipale. Profondamente triestine, e insieme internazionali, di una modernità che oggi possiamo intendere meglio, sono le figure che campeggiano in queste pagine: Svevo, Saba, Slataper, e poi i fratelli Stuparich, Michelstaedter e tanti altri ancora, al tempo stesso mediatori di esperienze diverse e inventori originali in proprio.

Italo Svevo, Senilità, varie edizioni: Pubblicato per la prima volta nel 1898 con scarso successo, fu salutato come un capolavoro nel 1927, dopo che Joyce ebbe dichiarato pubblicamente il suo grande apprezzamento per questo libro. È la storia, in una Trieste allietata dai clamori del Carnevale, di un “eroe esistenziale” la cui protesta sociale, il cui non ritenersi figlio dei tempi si arrendono all’amore per una donna, miscuglio irresistibile di sensualità e devozione, di grazia e sfacciata volgarità, di egoismo e pietà. Con Senilità Svevo entra nel pieno della sua maturità letteraria. Nell’opera si respira, ormai libera e naturale, quella che Montale definì “l’epica della grigia casualità della nostra vita di tutti i giorni”.

Italo Svevo, Una vita, varie edizioni: Una vita è il racconto di un’iniziazione impossibile. Giovane impiegato di banca, da poco inurbato, che chiama malattia il suo disagio sociale e sogna il successo come riscatto, Alfonso Nitti coltiva il sogno: il sogno a occhi aperti, la fantasticheria che blocca la presa di coscienza; il sogno notturno di intensa vividezza, in rapporto stretto ma imprecisabile con l’esperienza reale, che fornisce intermittenti illuminazioni ma anche complica e frantuma in labirintici percorsi interni la sua complessiva esperienza. L’enigma non è nei fatti, ma nella natura del personaggio e nella fertilità inventiva con la quale egli, rifuggendo dall’apparente gratuità dei suoi gesti, insiste nel decifrarsi, si contraddice, conforta se stesso, traveste l’esperienza.

Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, Mondadori: In Friuli, durante l’ultima guerra, si insedia, proveniente dalla Russia, un’armata cosacca: sono uomini, donne, vecchi e bambini a cui le autorità tedesche hanno promesso una patria.
Fatto realmente accaduto, nella narrazione di Sgorlon diventa la tragica odissea di un popolo predestinato allo sterminio. In questo lembo di terra, i cosacchi e gli abitanti del Friuli invaso sono ugualmente vittime di una diversa oppressione. Ma in queste drammatiche vicende si inserisce l’indimenticabile figura di Marta che, con il suo immenso desiderio d’amore, diventerà il simbolo, in antitesi alla guerra, dei valori che contano nella vita dell’uomo.

Carlo Sgorlon, Regina di Saba, Mondadori: Il bagliore di un incendio, una breve apparizione, una affascinante figura femminile. Un incontro che si ripeterà, che deve ripetersi: così sogna il ragazzo friulano già innamorato della sconosciuta. È l’inizio di una storia d’amore strana e sofferta, in bilico tra la sensualità di un’attrazione e lo sguardo violento di una natura incontaminata. Sgorlon, come soltanto un grande scrittore può, ha perfettamente imprigionato la passione tra un uomo e una donna in questo romanzo, pubblicato nel 1975. I due amanti non potranno più dimenticarsi, anche dopo molti anni, anche lontani da quella natura che li ha stregati, anche quando le decisioni da prendere diventeranno difficili.

Giorgio Scerbanenco, La sabbia non ricorda, Garzanti: Siamo in estate, sulle spiagge dell’Adriatico. Un uomo giace sulla sabbia con la gola squarciata. Comincia così l’incalzante «giallo italiano» di Scerbanenco. Ma chi ha ucciso il povero Giannuzzo, un ometto dall’apparenza innocua che in realtà terrorizzava tanta gente? Anche gli innocenti mentono, o tacciono. E così, inevitabilmente, al primo segue un secondo omicidio. Protetto da questa rete di omertà, l’assassino attende con pazienza che passi la tempesta. Ma non sa che il suo nome è stato scritto sulla sabbia…

Elio Bartolini, Il ghebo, Avagliano: Il libro è un romanzo sulla Resistenza in Friuli, dove il movimento di liberazione dal nazifascismo ha rappresentato molto, anzitutto la liberazione da parte dei contadini dalla sudditanza padronale. Il ghebo racconta la storia di Andrea, giovane intellettuale della Resistenza, chiamato ad avviare il Comando Unico, ovvero la collaborazione effettiva tra partigiani comunisti e cattolici. La coabitazione tra le due forze popolari sta riuscendo, almeno fino all’eccidio di Porzus, che svanisce tutte le sue fatiche.

Ippolito Nievo, Il conte Pecorajo, Marsilio: Nella primavera del 1855 Ippolito Nievo decide per la prima volta di scrivere un romanzo. Nasce così Il Conte Pecorajo, una «storia del nostro secolo», che uscirà dopo una tormentata elaborazione nel 1857 (intanto Nievo ha scritto e pubblicato, nel 1856, Angelo di bontà, «storia del secolo passato»). E mentre Il Conte esce nelle librerie, lo scrittore inizia il suo terzo e maggiore romanzo, Le Confessioni d’un Italiano. Il Conte Pecorajo, insieme ai racconti del Novelliere campagnuolo, è uno straordinario tentativo di esplorare narrativamente la realtà rurale del Friuli contemporaneo. Il progetto di una letteratura “campagnuola”, diffuso nell’Europa di quegli anni, trova in Italia con Nievo una risposta capace di confrontarsi coi più importanti modelli letterari (Manzoni, Sand, Carcano), di misurarsi sulla complessità del romanzo, e di riflettere le difficili questioni – sociali, economiche e culturali – di quell’Italia regionale, povera e arretrata, ma ricca di valori e di civiltà, che era ormai avviata all’unità nazionale. La veste linguistica, eccessiva rispetto alla media ottocentesca e alle stesse abitudini nieviane, e alcuni artifici narrativi hanno ingiustamente penalizzato questo romanzo, forse il meno noto di Nievo. Eppure attraverso la storia di Santo – il «Conte Pecorajo» – e di sua figlia Maria, il lettore di oggi riscopre un documento vivo del Friuli preunitario, un romanzo «contadinesco» tutt’altro che banale, e la prova prima di un grande scrittore.

Giulia Bozzola, Una classe difficile, Fazi: In una lettera indirizzata a un maresciallo dei carabinieri, Greta ripercorre un anno di supplenza nella scuola media di Meduno, paesino delle montagne friulane. Un anno passato tra lezioni, gite nei boschi, chiacchierate con colleghi frustrati da un mancato trasferimento, rapporti non sempre facili con la comunità del posto. Un anno ripercorso attraverso una confessione che è un viaggio nei sentimenti, alla riscoperta del nodo di repulsione e attrazione per una terra aspra, dove anche i ragazzi hanno negli occhi la durezza di leggi antiche e la purezza di un isolamento che le scie dei caccia militari, diretti nei vicini territori dell’ex Iugoslavia durante la guerra del Kosovo, sfiorano appena. È un anno che si rispecchia nel volto da bambino-adulto di “Occhiverdi”, e nella silenziosa, cauta passione che quello stesso volto suscita in Greta. Ma l’anno raccontato, l’anno che è questo libro, è macchiato dalla tragica morte di un ragazzo al termine di una festa in riva al fiume. Si è trattato di un incidente o è stato vittima di un omicidio? Qualcuno avrebbe potuto fare qualcosa per impedirlo? E l’eco di questo evento misterioso continuerà ad aleggiare sulla vita dei protagonisti come un fantasma senza pace.