Pitchaya Sudbanthad, Sotto la pioggia (Thailandia)

Pitchaya Sudbanthad, Sotto la pioggia (tit. originale Bangkok Wakes to Rain), Fazi, 2021. Traduzione dall’inglese di Silvia Castoldi. Pubblicazione originale 2019.

Quando ho iniziato questo libro ho avuto l’impressione di essermi sbagliata: ho creduto che si trattasse di una raccolta di racconti e non, come avevo pensato inizialmente, di un romanzo. Invece no, è proprio un romanzo, ma dalla struttura a dir poco bizzarra. Premetto che come molti sapranno non sono affatto avversa alle strutture bizzarre, anzi le amo molto. Però in questo caso non l’ho trovata di mio gusto (ma è, semplicemente, una questione di gusto).

Il romanzo non ha un protagonista preciso, se non forse la città di Bangkok, il cui vero nome è Krungthep. I personaggi sono tantissimi e tutti vengono seguiti lungo un arco temporale lunghissimo, ma non ce n’è uno che spicca tra gli altri. Partiamo dall’ambientazione di una missione cristiana a Bangkok, con un medico missionario, passando per un’ambientazione più o meno contemporanea (all’incirca dagli anni Settanta fino ai giorni nostri), per poi arrivare a un’ambientazione nel futuro. Tanto che nell’ultima parte il romanzo si fa puramente di fantascienza e forse è la parte che ho apprezzato di più, con la sua visione futuristica di una città distrutta dalle alluvioni ma anche graziata da grandi innovazioni scientifiche.

Si parla dell’incontro dei missionari con i nativi, di un musicista, delle insurrezioni e dei golpe degli anni Settanta, e appunto di alluvioni devastanti e un futuro assai particolare. Ma anche di tanto altro.

I salti temporali non mi hanno creato problemi, ma non ho apprezzato la decisione di seguire una miriade di personaggi senza fare di nessuno il principale o i principali. Ho trovato che questo desse un aspetto molto caotico al romanzo, che è difficile da seguire perché a un certo punto uno non si ricorda più chi è Mai, chi è Sungthep, eccetera. Forse (ma è solo un’idea) l’autore voleva così ricalcare la caoticità di una grande città come Bangkok: non conosco la città, ma se è così forse ci è riuscito. Se invece il suo intento non era questo, beh, a me questo romanzo non ha colpito per niente. C’è da dire però che la scrittura è molto buona.

Boris Pahor, Qui è proibito parlare

Boris Pahor, Qui è proibito parlare (tit. originale Parnik trobi nji), Fazi, Roma 2009. Traduzione dallo sloveno di Martina Clerici.

Boris Pahor è uno scrittore triestino di lingua slovena, nato nel 1913 e tuttora vivente, che ho avuto il piacere di vedere a una conferenza a Roma due o forse tre anni fa. Un uomo di una lucidità immensa anche ora che ha più di 100 anni.

Questo libro, scritto nel 1963 e pubblicato solo nel 2009 da Fazi, è ambientato a Trieste durante l’era fascista. Trieste, così come tutta la Venezia Giulia, è un crocevia di popoli e vanta una nutrita presenza di sloveni. Il fascismo non vedeva di buon’occhio tutto ciò che non fosse italiano, perciò proibì agli sloveni di esprimersi nella propria lingua madre e perpetrò degli atti orrendi come ad esempio l’incendio del Narodni Dom, durante il quale alla gente presente all’interno fu proibito uscire.

In questo romanzo Pahor narra sostanzialmente una storia d’amore, sullo sfondo però ben presente della repressione fascista degli sloveni e della resistenza opposta da alcune cellule. Qui è proibito parlare, perché agli sloveni, come dicevo, non era consentito esprimersi nella propria lingua.

Ema, slovena di Trieste, si trova un giorno a riflettere sul Molo Audace (allora Molo San Carlo, che poi è quello raffigurato sulla copertina del libro). A un certo punto le si avvicina una barca, guidata da un uomo incuriosito da quella figura femminile solitaria. L’uomo è Danilo, anch’egli sloveno, ma questo Ema lo scoprirà soltanto dopo. Da quell’incontro fortuito nasce una storia d’amore: inizialmente Ema lo respinge, ma in seguito andrà a trovarlo al circolo nautico e fra loro sboccerà l’amore.

Danilo è un uomo della resistenza slovena, ed Ema stessa è attratta da quella resistenza attiva, perché giudica che non sia possibile proibire a un intero popolo di esprimersi nella propria lingua, né tantomeno reprimere coloro che si ostinano a farlo. Seguono piccoli e grandi atti di ribellione, come ad esempio riunirsi in segreto per studiare la lingua slovena.

Quando Danilo parte per il servizio militare, Ema si unisce alla resistenza e sembra divenire un’altra persona, tanto questa lotta le si addice.

Il romanzo è estremamente interessante, soprattutto se consideriamo che tutt’oggi sappiamo ancora poco di questa pagina orribile della dittatura fascista. Quel poco che sappiamo lo dobbiamo anche a Boris Pahor. È interessante l’intrecciarsi della storia della resistenza con la storia d’amore fra Ema e Danilo. Tuttavia, la scrittura mi ha lasciato seriamente perplessa, soprattutto per il continuo alternarsi di passato e presente nella narrazione, persino all’interno della stessa frase. Essendo un’alternanza continua, mi viene da pensare che abbia un qualche senso, perché è davvero una caratteristica troppo pronunciata per poter essere fortuita e attribuibile magari alla traduzione. Tuttavia, se ha un senso, io non l’ho capito, e il passaggio fra tempi verbali è servito solo a irritarmi nella lettura di un libro pur bello. Altra caratteristica che rende il libro artificioso sono i dialoghi tra i personaggi, che sembrano quasi fatti apposta per trarne fuori delle citazioni, tanto sono altisonanti e, appunto, artificiosi nella loro letterarietà.

La mia impressione è che Pahor abbia detto le stesse cose in maniera di gran lunga migliore nel suo libro di racconti Il rogo nel porto, che purtroppo non ho recensito. Avevo trovato quel libro meraviglioso, questo invece è appena discreto, e diciamoci pure la dura verità: si “salva” solo per il contenuto, mentre purtroppo lo stile lo penalizza moltissimo. Ciò non toglie che leggerò con piacere altri libri di Pahor.