Robert Aickman, Cold Hand in Mine (Suspense)

Robert Aickman, Cold Hand in Mine, Faber & Faber.

Questa raccolta di racconti, uscita nel 1975, è stata pubblicata in Italia da Mondadori nella collana Oscar Horror con l’orrendo titolo Suspense. Il libro è uscito nel 1990 e credo sia ormai fuori catalogo, in ogni caso se riuscite a recuperarlo (quello in inglese è facilissimo da reperire in cartaceo e in ebook) ve lo consiglio.

Robert Aickman è considerato uno dei grandi della weird fiction della nuova scuola, per cui non potevo esimermi dal leggere qualcosa di suo. Devo dire che ho fatto fatica a ingranare coi primi racconti e ho iniziato a pensare che questa fama fosse un poco esagerata, ma a un certo punto la qualità si alza tantissimo.

I due racconti che ho preferito (ex aequo) sono The Hospice e The Clock Watcher.

Il primo parla di un uomo che, a causa del suo scarso senso dell’orientamento, finisce per perdersi durante un viaggio in macchina: sta per finire la benzina e perciò, trovandosi di fronte a una pensione, decide di fermarsi a cenare e a chiedere una tanica di benzina. Come tutti sappiamo, quando ti sei perso e arrivi a un motel/hotel/pensione in mezzo al nulla, non è mai una buona idea fermarsi, come ci hanno insegnato innumerevoli libri e film horror. Ma il nostro protagonista non deve averli letti/visti e quindi si ferma.

Nel secondo racconto invece vediamo una giovane coppia di sposi poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, lui inglese e lei tedesca. La donna, Ursula, ha una strana e ossessiva passione per gli orologi a muro e cucù, che colleziona senza alcun senso della misura.

Molto bello anche Pages from a Young Girl’s Journal, nel quale una ragazza inglese è in vacanza in Italia insieme ai genitori ai tempi in cui anche Lord Byron si trova nel nostro paese. Bello il contenuto, ma bella anche la resa, perché Aickman lo scrive in perfetto stile e linguaggio ottocentesco, dato che si tratta del diario di una ragazza vissuta nell’Ottocento.

Bellissimo anche The Same Dog, nel quale assistiamo all’amicizia fra due bambini, fra i quali viene a frapporsi uno strano e aggressivo cane…

Per niente male The Swords, dove un uomo assiste a uno stranissimo spettacolo in un luna park, con protagonisti un imbonitore annoiato e una donna bellissima.

Gli altri (sono otto in tutto) li ho trovati carini ma nulla di più.

Mi rendo conto di aver scritto pochissimo riguardo a ciò che succede in questi racconti, ma non voglio certo privarvi del piacere della scoperta, perché vi garantisco che è meglio se ci arrivate senza sapere nulla di più di quanto vi ho detto.

La scrittura di Aickman è eccellente e, come dice la postfazione, pare fuori dal suo tempo, nel senso che sembra più un autore del primo Novecento che della seconda metà del secolo. Una scrittura elegantissima. Le atmosfere sono weird e sinistre, forse ci sono tocchi di soprannaturale ma tutto rimane all’immaginazione del lettore, non vengono mai date spiegazioni in proposito a quello che succede. In alcuni casi i finali sono aperti, in un caso addirittura il racconto termina bruscamente proprio quando sembra che l’autore stia per svelarci qualcosa. Personalmente odio i finali aperti, ma in questo caso li ho apprezzati (ecco, magari quello bruschissimo un po’ meno) perché contribuiscono enormemente a mantenere e anzi aumentare quell’atmosfera sinistra e inquietante. Il lettore vorrebbe sapere cosa sta succedendo, in un certo senso sarebbe un modo per tranquillizzarsi dopo atmosfere così bizzarre e spesso angosciose, invece Aickman non ci dà questa soddisfazione, anzi decide di mantenerci sulle spine per sempre.

Devo dire dunque che il giudizio finale è molto positivo e penso che leggerò altro di Aickman.

Se volete, qui trovate i titoli italiani dei racconti.

Caryl Phillips, The Final Passage (Saint Kitts e Nevis)

Caryl Phillips, The Final Passage, faber and faber, 1985.

La prima parte di questo libro si intitola “The End”. Pensavo che la storia partisse dalla fine per poi proseguire a ritroso, ma avvicinandomi alla fine del libro ho capito che il senso era un altro.

La storia si svolge intorno alla fine degli anni Cinquanta, quando le Indie Occidentali fanno ancora parte dell’Impero britannico. Leila è con il figlioletto Calvin al porto, in fila per salire sulla nave che li porterà in Inghilterra. Sta aspettando suo marito Michael, che però tarda ad arrivare. Quando arriva salgono sulla nave che salperà poi alla volta della madrepatria. Da qui la narrazione procede fra vari balzi indietro, non è del tutto lineare ma questo non la rende difficile da seguire.

È la storia di Leila, che ho immaginato come una donna matura appena l’ho incontrata, solo per poi scoprire che ha appena 19 anni. Leila vive su un’isola delle Indie Occidentali insieme al figlio Calvin, che a giudicare da quello che viene raccontato dovrebbe avere pochi mesi, forse al massimo un anno (l’età precisa non viene mai menzionata). È sposata con Michael, ma non vivono insieme: già la sera delle nozze lui le ha sputato in faccia e se n’è andato. Michael è un perdigiorno, uno scansafatiche a cui piace solo bere e che preferibilmente non farebbe niente nella vita, a parte forse sedurre le donne, ma anche questo non è chiaro. Già da tempo ha una relazione con Beverley, dalla quale ha avuto un figlio: Beverley aveva aspettato per anni che il marito, emigrato negli Stati Uniti, le scrivesse di raggiungerlo, ma questo non è mai accaduto e così ha instaurato una sorta di relazione con Michael. Tuttavia questo non ha impedito a Michael di corteggiare e poi sposare Leila, con la quale non ha però mai, assolutamente mai avuto un vero rapporto di tipo affettivo. Leila è sempre lasciata da parte, dal giorno stesso delle nozze. Ma questo non significa che Michael ami Beverley. Michael non ama nessuno, se non se stesso, e anche questo è dubbio.

Il libro è fatto di immensi silenzi: Michael che va a casa di Beverley e mangia chino sul piatto senza parlare, Beverley che senza parlare gli porge il piatto con la cena, Leila che senza parlare accetta tutto quello che Michael fa. Sembrano tutti dei personaggi senza vita, in particolare Leila pare priva di emozioni, anche se è chiaro che non è così. Come dirà verso la fine del libro, Leila vive nella rassegnazione e nell’attesa. La rassegnazione è una delle protagoniste principali del romanzo, infatti. Capisco poi che Leila abbia l’impressione di essere in costante attesa, ma di fatto (cosa che lei stessa sa benissimo) la sua è un’attesa disperata, un’attesa di qualcosa che non arriverà mai.

La disperazione, cupissima e totale, è la cifra principale di questo romanzo. Non c’è un singolo spiraglio di luce in tutto il libro, mai.

L’unico personaggio che porta un po’ di colore e di vita è Millie, l’amica coetanea di Leila. Sedotta da Bradeth, rimane incinta ma lui rifiuta di sposarla, tuttavia fa coppia con lei a tutti gli effetti. Sono gli unici due personaggi un po’ vitali, gli unici che danno l’impressione di essere umani. Gli altri sembrano automi, ma sono stati resi così dalla disperazione.

Leila vive con il figlio e la madre che, nonostante i suoi appena 40 anni, è malata e passa gran parte del tempo a letto. Una mattina Leila si sveglia e al posto della madre trova una lettera, in cui la donna le annuncia di essere partita per l’Inghilterra in cerca di cure migliori. Successivamente Leila decide di seguirla e Michael, cacciato di casa da Beverley dopo l’ennesima umiliazione che le ha fatto subire, decide di andare con lei.

L’Inghilterra è un po’ la terra promessa, dove gli abitanti dell’isola sono convinti di poter trovare un posto migliore, un lavoro, la ricchezza, una vita lontana dalla monotonia e dalla prevedibilità. Invece, l’Inghilterra degli anni Cinquanta è un posto ostile: ha creato un impero ma non vuole saperne delle persone che ha colonizzato, le case espongono cartelli dove scrivono che non si affitta ai “coloureds”, e se non li espongono è solo per ipocrisia, perché di fatto nessuno vuole affittare ai non bianchi. Perciò ci si deve arrangiare: gli uomini soli in case fatiscenti in cui si abita in tantissimi, le famiglie come Leila, Michael e Calvin in case ancor più fatiscenti che nemmeno un topo di fogna oserebbe chiamare “casa”. Il lavoro, se c’è, è solo di infimo livello, l’ostilità è enorme. Per fortuna Leila ha una vicina di casa ansiosa di aiutarla e con cui nasce un’amicizia.

Tuttavia, questa amicizia non deve far sperare: come dicevo, non c’è nessuno spiraglio, mai. La disperazione regna sovrana e sembra non ci sia alcun modo di uscirne. Leila non aveva sogni neanche sull’isola, era già rassegnata, ma se pure avesse avuto qualche speranza, l’impatto con la realtà trovata in Inghilterra spazzerà via ogni sia pur minima speranza di miglioramento. Alla fine non resta che la sopravvivenza, ma non sempre. Nel caso di Leila, forse, resta solo la follia: sebbene la conclusione del romanzo rimanga vaga sulla questione, a me pare che non possa essere interpretata in altro modo.

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Il libro purtroppo non è stato tradotto in italiano, nonostante la cupezza penso che meriti davvero di essere letto, è una descrizione perfetta di tematiche come la solitudine, la rassegnazione, la disillusione, i sogni infranti, il colonialismo, l’emigrazione…

Caryl Phillips viene considerato uno dei più importanti scrittori della sua generazione. Nato nel 1958 a Saint Kitts e Nevis, nei Caraibi, a soli quattro mesi si trasferisce con la famiglia in Inghilterra, dove nel corso degli anni diventerà un affermato scrittore, sceneggiatore e professore universitario. Uno dei temi a lui più cari è quello della diaspora africana.

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Per l’uso del termine “coloured” (negli Stati Uniti e nel Regno Unito) potete leggere qui, mentre questo articolo della BBC vi spiega perché non è una buona idea usare questa parola. La questione del linguaggio relativo all’appartenenza razziale ed etnica è complessa, nei paesi di lingua inglese raggiunge gradi di complessità inenarrabili, e secondo me è difficile da comprendere se non si vive in quei posti. Già per me parlare di appartenenza “razziale” è abbastanza shockante, nel senso che dal mio modesto punto di vista la razza è una, ed è quella umana. Tuttavia non è così ovunque, per esempio qui c’è un’interessante pagina sulla situazione statunitense. La questione è strettamente connessa alla cultura del paese preso in considerazione: non si può pensare che il punto di vista sull’argomento sia lo stesso in un paese dal passato fascista che ha partorito le leggi razziali, come l’Italia, e in un paese in cui un’amplissima fetta della popolazione discende dagli schiavi e in cui la schiavitù e la segregazione razziale sono state abolite solo pochissimo tempo fa, come gli Stati Uniti. Altro ancora è il discorso per un paese dal passato coloniale, come il Regno Unito, e così via, in ogni paese la questione poggia su basi diverse e non è facile da comprendere per chi in quel paese non ha mai vissuto. Si potrebbero scrivere fiumi di parole sull’argomento, ma questa vuole essere solo una breve nota a margine.

Paul Auster, 4 3 2 1

Paul Auster, 4 3 2 1, Faber & Faber, London 2017.

Dopo aver letto altri tre libri di Auster ed essermene innamorata, quando è uscito questo nuovo romanzo nel 2017 ero molto curiosa di leggerlo e l’ho acquistato qualche mese fa in versione inglese. Si tratta di un tomo di 1070 pagine scritte fitte fitte, ma non mi ha mai spaventato perché pensavo di andare sul sicuro con Auster. La conclusione di questa lettura è che il libro, sebbene mi sia piaciuto, mi ha al contempo anche deluso. Provo a spiegare meglio.

Il libro inizia con la storia di Isaac Reznikoff, il nonno del nostro protagonista Ferguson, arrivato in America da Minsk il 1° gennaio 1900 e ribattezzato Ichabod Ferguson per un motivo molto semplice: all’arrivo gli viene suggerito da un compagno di (s)ventura di dichiarare di chiamarsi Rockefeller, ma il nome è troppo difficile e quando gli viene chiesto l’uomo esclama, in yiddish: «Ikh hob fargessen!» («L’ho dimenticato»), che ovviamente il funzionario americano interpreta come Ichabod Ferguson, vista l’assonanza.

In seguito l’autore ci narra la storia di Ichabod Ferguson, di come si è sposato e di come ha messo al mondo tre figli fra cui quello che sarà il padre del protagonista. Anche la storia della madre di Ferguson viene raccontata, e così pure, ovviamente, la storia di come Stanley e Rose si siano sposati e di come dal loro matrimonio sia nato, il 3 marzo 1947, Archibald Isaac Ferguson.

Ferguson, a questo punto, non si sdoppia, ma si divide addirittura in quattro. Altro che sosia, altro che doppio, altro che Doppelgänger. Si tratta di quattro possibili Archie Ferguson, le cui vite divergono nettamente l’una dall’altra, sebbene vi siano sempre molti elementi comuni, fra cui posso citarne solo un paio per non fare spoiler: ad esempio la famiglia Schneiderman, fra cui la figlia Amy, oppure la passione per la lingua francese. Gli elementi comuni sono in realtà molti di più, ma non voglio anticiparvi niente.

In almeno un paio di punti del romanzo, Ferguson stesso si chiede come sarebbe se ci fossero tanti possibili Archie diversi con vite diverse che seguono strade diverse. Questo ci dovrebbe già far capire qualcosa. Ad ogni modo sappiamo fin dall’inizio che siamo di fronte a quattro Ferguson paralleli, come già detto.

Perché il libro si intitola 4 3 2 1? Lo scopriremo alla fine. Non so se Auster volesse o meno creare suspense, forse sì o forse invece non gliene importava poi molto perché non era quello il punto, sta di fatto che non è difficile capire come finisca il libro, non è difficile per niente. Del resto, per chi conosca almeno un po’ Auster, era piuttosto inevitabile che le cose andassero così. Rimango volutamente sibillina per non rovinare la lettura a chi invece non si sia fatto un’idea.

La scrittura di Auster è, come sempre, sopraffina, e sono tuttora convinta che pochi autori contemporanei scrivano bene quanto lui. Inoltre, a rendere più interessante il romanzo, c’è il fatto che la storia personale di Ferguson si intreccia inestricabilmente con la storia degli Stati Uniti fra l’immediato dopoguerra (seconda guerra mondiale) e la guerra del Vietnam, con tutti i tumulti, le rivolte e gli avvenimenti di cui ben sappiamo. In questo senso è anche possibile, volendo, definire questo libro un romanzo storico, benché sia una definizione che certamente gli va stretta e che non rende giustizia alla magnitudine del romanzo in questione.

Siamo senz’altro di fronte a un’opera monumentale, a un libro bellissimo, eppure mi ha un po’ (non completamente, certo) deluso in quanto l’idea di fondo, o il finale se vogliamo chiamarlo così, è scontata. Non in assoluto, se è il primo romanzo di Auster che leggete probabilmente ne rimarrete affascinati, a patto che vi piaccia la letteratura postmoderna. Intendo dire che è scontato per chi abbia un minimo di dimestichezza con la struttura narrativa di Auster. La mia impressione, per quanto mi sia piaciuto immensamente leggere questo libro, che si lascia leggere voracemente pur con il suo stile raffinato e complesso, la mia impressione, dicevo, è che questo romanzo non aggiunga molto alla precedente produzione di Auster, che ha dato il meglio in altri libri come, in primis, Trilogia di New York, ma non solo.

Insomma, per quanto la storia sia bella, per quanto l’idea sia bella (ma non particolarmente originale), per quanto la scrittura sia magnifica, per quanto sia interessante leggere la storia degli anni Cinquanta-Sessanta vista da Ferguson, mi sembra che questo romanzo non spicchi particolarmente né nella produzione dell’autore né nella produzione letteraria contemporanea. Non griderei al capolavoro, ecco. Resta tuttavia una lettura interessante che certamente non sarò io a sconsigliare.

Paul Auster, Oracle Night

Paul Auster, Oracle Night, Faber and Faber, London 2005.

Questo romanzo, pubblicato in italiano con il titolo La notte dell’oracolo, è il terzo che leggo di Paul Auster, e l’autore continua a non deludermi. Anzi, mi piace tantissimo.

La storia è quella di Sidney Orr, uno scrittore di 34 anni che vive a New York con la moglie Grace, e che si sta solo ora riprendendo da un problema di salute a causa del quale i medici lo avevano dato per spacciato. Un giorno Sidney entra in una cartoleria e compra un taccuino portoghese dalla copertina blu, e tutto ha inizio quel giorno. Ma la storia non è solo una, e non potrebbe essere altrimenti dato che ci troviamo in un romanzo postmoderno. Le storie sono almeno tre, una dentro l’altra come una matrioshka. Perché Sidney, dopo tanto tempo in cui non ha scritto niente, su quel taccuino blu ricomincia a scrivere. Scrive la storia dell’editor Nick Bowen, il quale a sua volta legge un manoscritto inedito della famosa scrittrice Sylvia Maxwell, che, guarda caso, si intitola La notte dell’oracolo. Poi ci sono altre storie, che scoprirete da soli: piccole storie, ma a loro modo importanti, anzi molto importanti.

Poi ci sono le note, e molti di voi sanno che io odio le note nei romanzi (ragion per cui non sopporto David Foster Wallace). E tuttavia, se mi leggete, saprete anche che mi è piaciuto molto Casa di foglie, che è il libro più pieno di note nella storia dei libri pieni di note, anche se forse non più di Infinite Jest. Ad ogni modo, in questo libro di Auster non mi hanno disturbato, anche perché, sebbene molto lunghe, non sono tante. Non ho citato a caso questi due autori, David Foster Wallace e Mark Z. Danielewski: leggendo questo libro ho spesso pensato a loro, che sicuramente devono tantissimo a Paul Auster.

La scrittura è ovviamente superba, non si può dire altro. Auster è un Maestro con la “M” maiuscola. Pochi scrittori scrivono bene quanto lui (ce ne sono, certo, ma non sono molti). Leggere questo libro è un piacere estetico, forse prima ancora del piacere della bella storia. Ma bisogna anche essere consapevoli che leggere questo libro è molto difficile, e infatti ci ho messo quattro giorni nonostante siano appena 200 pagine. Richiede concentrazione e una certa predisposizione mentale che a volte, magari dopo una giornata di lavoro, si potrebbe non avere.

State lontani come la peste da questo romanzo se non vi piace la letteratura postmoderna. Se invece il postmodernismo vi piace, dovreste aver già letto questo libro, ma se non lo avete fatto, fatelo subito!

Paul Auster, The New York Trilogy

Paul Auster, The New York Trilogy, Faber and Faber, London 2008. 378 pagine.

Avevo comprato questo libro in ebook un paio di anni fa, e ora mi sono magicamente ricordata di averlo nel mio Kindle. L’ho sempre detto io, che i libri sanno trovare il momento giusto per essere letti. Tra l’altro, nonostante la fama del libro in questione, l’ho preso in mano non ricordandomi di cosa parlasse, se non che era una raccolta di tre romanzi brevi ambientati a New York. Buio totale. Ed è probabilmente questa la condizione migliore per leggere questo libro.

La mia reazione, finito il primo episodio, è stata “Wow”. Ammetto, non molto professionale, ma io non sono un critico letterario, sono solo una persona che ama condividere le proprie letture sul suo blog.

Questo libro mi ha lasciato senza respiro, come se l’aria mi fosse stata tolta dai polmoni, da tanto ero impegnata a trattenere il fiato per la pura bellezza di quello che stavo leggendo. Questo mi accade molto raramente. Diceva Kafka che un vero libro, un vero buon libro, deve essere come un pugno sul cranio, e The New York Trilogy in un certo senso lo è.

Metaletteratura se mai ce n’è stata, un romanzo postmodernissimo. Ho detto un romanzo? Ma non dicevo che si trattava di una raccolta di tre romanzi brevi? Tutte e due le definizioni sono vere: la trilogia è sia una raccolta di tre romanzi sia un unico romanzo. Come è possibile questo? Beh, ma è presto detto: il postmodernismo lo rende possibile. Ma capirete di più leggendo il libro.

L’unica cosa che posso dire è che i tre romanzi brevi rimandano l’uno all’altro, come se in essi fossero presenti tanti fili che si intrecciano. I temi si intrecciano, così come i nomi, le situazioni, le idee. Sono detective stories? Ma no. O sì. Sì, se pensiamo al giallo à la Dürrenmatt. No, in tutti gli altri casi. Perché come Dürrenmatt, Auster sovverte i canoni della detective story, mischiandoli e frantumandoli in un’allegria metaletteraria (allegria, se vi piace il genere, altrimenti delirio).

Il tema di fondo è senz’altro la disintegrazione dell’io. Importantissimo è anche il tema della scrittura e del linguaggio. Ma vari temi si intrecciano e vanno a costituire quello che secondo me è un vero e proprio capolavoro.

È il primo Auster che leggo, e senza ombra di dubbio ne voglio leggere altri.