Hjalmar Söderberg, Il dottor Glas – 1905

Non so se sono un po’ ignorante io o se realmente questo libro non sia tanto conosciuto in Italia; tuttavia, personalmente non ne avevo mai sentito parlare e l’ho scoperto solo grazie a un gruppo di lettura su Goodreads. A dire il vero non conoscevo nemmeno l’autore. Mi pare di capire che anche in patria, almeno all’inizio, sia stato un po’ ostracizzato dai moralisti benpensanti e che quindi questo libro non abbia inizialmente avuto molta fortuna, per poi essere rivalutato diversi anni dopo la morte dell’autore, come spesso accade.

Il romanzo è scritto sotto forma di diario: il dottor Glas, un giovane medico di Stoccolma, vi annota i suoi pensieri in un flusso di coscienza che parte pacato e posato, per poi farsi sempre più concitato e infine divenire quasi delirante.

Il dottor Glas non ama particolarmente le donne ed è anche abbastanza schifato dal concetto dell’atto sessuale, ha tuttavia avuto un amore in gioventù e da allora non ha più amato nessuna. Finché non ha incontrato la moglie del pastore Gregorius, che un giorno si reca nel suo ambulatorio per chiedergli di aiutarla.

In questo breve romanzo Söderberg tocca temi di grande importanza e di sicuro scandalo per l’epoca in cui è stato pubblicato: l’aborto, l’eutanasia, la violenza sessuale nella cornice matrimoniale, l’adulterio, l’assassinio e la sua apologia. Infatti, quello che il dottor Glas si chiede è: è giusto uccidere un uomo, se quell’uomo è un essere spregevole che fa soffrire una donna, sua moglie? In realtà, il romanzo è ben lungi dall’essere un’apologia dell’assassinio, ma il dottor Glas si pone questa domanda, pur non arrivando necessariamente a una risposta affermativa.

Il dottor Glas nel suo diario cita esplicitamente Raskol’nikov e Thérèse Raquin: fughiamo subito ogni dubbio dicendo che Glas non è Raskol’nikov e Söderberg non è Dostoevskij. Siamo lontani da quelle vette, anche, ma non solo, per l’estremità brevità di questo romanzo che quindi non permette l’approfondimento di Delitto e castigo. Detto questo per evitare che qualcuno si approcci al romanzo nella speranza di trovare un novello Dostoevskij, c’è però da dire che Söderberg scrive estremamente bene: ho trovato eccellente questo suo addentrarsi nella mente di Glas, che la forma diaristica ci permette di vedere in prima persona. Insomma, diciamo che non possiamo portare Dostoevskij (o Zola) a pietra di paragone, perché i livelli in questi due casi sono praticamente irraggiungibili, ma se non speriamo di trovare uno scrittore a quell’altezza avremo grande piacere nel leggere Il dottor Glas e nello scoprire i processi mentali e le opinioni (molto all’avanguardia per l’epoca) del protagonista. Per me, molto consigliato.

Titolo: Il dottor Glas
Titolo originale: Doktor Glas
Autore: Hjalmar Söderberg
Traduttrice: Maria Cristina Lombardi
Casa editrice: Lindau
Pubblicazione originale: 1905
Numero di pagine: 166
Lingua originale: svedese

Jo Nesbø, Macbeth

La Hogarth Press è una casa editrice inglese che alcuni fanni fa commissionò ad alcuni autori famosi la riscrittura di diverse opere shakespeariane. Un paio di anni fa ho letto Seme di strega di Margaret Atwood, riscrittura de La tempesta, ora invece ho voluto cimentarmi con il Macbeth di Jo Nesbø, che volevo leggere da molto tempo.

Due premesse: è il primo libro che leggo di Nesbø e, per la sua natura, dubito che sia fra i suoi più rappresentativi, perciò aspetto di leggere altro di suo prima di giudicare l’autore. Inoltre, il Macbeth è la mia opera shakespeariana preferita e, secondo me, uno dei testi più belli mai scritti in assoluto. Ho una vera e propria adorazione per questa tragedia, perciò ero curiosissima di questa riscrittura in chiave thriller.

Devo dire innanzitutto che secondo me non è facile godersi appieno il libro se non si conosce la tragedia di Shakespeare, perciò, se siete tra i pochi che non l’hanno ancora letta, prima di approcciarvi a questo romanzo vi consiglio di leggere il libro e/o di vedere uno dei film che ne sono stati tratti o, meglio ancora, di vederla a teatro. Altrimenti temo che molte cose possano sembrare strane, esagerate o fuori luogo.

Macbeth di Nesbø è una vera e propria riscrittura: l’autore riprende i nomi dei personaggi e le loro caratteristiche, le situazioni, gli avvenimenti, la trama, perfino molte battute sono riprese pari pari dalla tragedia di Shakespeare. Questo mi è piaciuto moltissimo, perché l’ho trovato un modo molto bello e interessante di rendere omaggio all’originale. Il caso del libro di Atwood era diverso, perché lì l’opera di Shakespeare veniva portata sul palcoscenico all’interno della cornice del romanzo (per saperne di più vi consiglio di leggere la mia recensione).

Il romanzo si svolge in una città non meglio specificata di un Paese non meglio specificato, vicina a Fife, quindi pensiamo immediatamente alla Scozia. La città è preda della droga e della criminalità, un posto veramente spaventoso. Macbeth è il capo della SWAT, nonostante la giovane età (ha poco più di 30 anni). Duncan è il commissario capo della polizia, e intorno ai due ruotano moltissimi altri personaggi che non sono affatto secondari, ma anzi rivestono grande importanza. Lady, la compagna di Macbeth, entra in scena solo dopo un po’, ma si prenderà la scena con forza, con il suo incredibile carisma, la sua bellezza e la sua ambizione.

La droga è un elemento onnipervasivo del romanzo e potremmo dire che è anch’essa una dei protagonisti: le persone che si drogano sono tantissime e vedremo ben presto che non sono solo quelle nelle strade. Altre protagoniste sono l’ambizione, la sete di potere (non per niente una delle droghe consumate in città, ma elitaria, si chiama “power”) e la corruzione.

C’è tantissima violenza in questo libro, direi quasi di più rispetto a quello che ci si aspetterebbe da un comune thriller, e nella parte finale del romanzo tutto diventa esagerato, sopra le righe, inverosimile e incredibile. In linea con l’opera originale. Anche per questo dico che non ci si dovrebbe approcciare a questo libro senza conoscere il Macbeth di Shakespeare, perché altrimenti sembrerebbe soltanto un thriller troppo sopra le righe ed eccessivo, pure un po’ mal fatto. Invece, nel quadro dell’opera originale, tutti i pezzi si incastrano, tutto è al proprio posto, tutto ha senso e niente potrebbe essere diverso da com’è.

La scrittura è molto cinematografica, sembra che l’autore abbia scritto il libro avendo già in mente un’eventuale trasposizione cinematografica: potrebbe essere semplicemente il suo stile, giudicherò quando avrò letto altri suoi libri. In alcuni casi l’ho trovato un po’ irritante, se posso essere sincera, perché non amo quegli autori che scrivono strizzando l’occhio al cinema, mi sembrano presuntuosi nel loro pensare che il libro sarà necessariamente trasposto in un film. Comunque, un difetto davvero piccolo se paragonato alla potenza del libro.

Certamente lo consiglio e non solo agli appassionati di thriller, ma anche a tutti gli appassionati del Macbeth di Shakespeare, perché ne rispetta appieno lo spirito.

Titolo: Macbeth
Titolo originale: Macbeth
Autore: Jo Nesbø
Traduttrice: Maria Teresa Cattaneo
Casa editrice: Rizzoli
Pubblicazione originale: 2018
Numero di pagine: 464
Lingua originale: norvegese

Mark Twain, A Dog’s Tale – 1904

Non so se questo racconto di Mark Twain sia mai stato tradotto in italiano, probabilmente è presente in qualche raccolta di suoi racconti, se ne esistono. In inglese si trova in vari siti perché è ormai nel pubblico dominio.

La narratrice di questo racconto è una cagnolina, figlia di un San Bernardo e di una Collie, molto legata alla madre anche se poi verrà venduta a un’altra famiglia di umani. La madre ama sfoggiare la sua conoscenza del vocabolario, per cui butta paroloni qua e là, ma evidentemente non ne conosce il significato. Gli altri cani però non se ne accorgono e la ammirano. Quando la protagonista/narratrice entrerà a far parte della sua nuova famiglia, inizieranno sia le gioie che i dolori…

Ho trovato molto carino questo racconto, in particolare perché narrato con gli occhi di un cane, che vede gli umani dal suo punto di vista, che è ovviamente diverso dal nostro. Nonostante la grazia e pur essendo delizioso, è molto triste nel finale, ma vale la pena di essere letto.

Titolo: A Dog’s Tale
Autore: Mark Twain
Casa editrice: pubblico dominio
Pubblicazione originale: 1904
Numero di pagine: 52

Robert Marasco, Burnt Offerings (Offerte sacrificali)

Pubblicato nel 1973, secondo la prefazione questo è stato uno dei libri che ha dato vita all’horror come genere. Ben presto caduto nel dimenticatoio, dobbiamo ringraziare la casa editrice Valancourt per averlo ripubblicato qualche anno fa. Il libro è poi stato tradotto in italiano come Offerte sacrificali per Sperling & Kupfer e uscito l’anno scorso. Oggi sicuramente fa ben poca paura, ma si nota che ha ridato nuovo lustro al filone delle case infestate (filone che certo era frequentato anche prima, ovviamente).

Ben e Marian Rolfe sono una coppia di sposi e vivono in un appartamento con il loro figlio David, di circa 8 anni. L’appartamento è angusto e ha i problemi di tutti gli appartamenti: rumori, vicini spioni, e così via. I Rolfe non sopportano questi difetti, in particolare il continuo suono del pianoforte di un appartamento vicino, dove vive un insegnante di musica. Decidono perciò di trascorrere i mesi estivi in una casa in campagna. O meglio, è Marian che decide, e Ben si adegua ai desideri della moglie come fa sempre, e questo nonostante le finanze ben misere.

Marian ha sempre la meglio su tutto, è dispotica e viziata, e Ben è una specie di zerbino ai suoi piedi. Io l’avrei mandata a quel paese molto prima. Comunque, a parte questo, è ovviamente lei che decide di prendere una bellissima dimora di campagna, dopo trascorreranno i due mesi estivi. È una dimora maestosa e gigantesca, ma completamente in rovina: sarà per questo che il prezzo dell’affitto è così basso? O, come sospetta Ben, ci sarà dietro qualcos’altro? Di certo c’è la signora Allardyce, arzilla ottantacinquenne madre dei proprietari della villa, che sta sempre chiusa nella sua camera ma che ha ovviamente bisogno di qualcuno che le prepari e le porti da mangiare. Sembra l’unica magagna della villa, ma sarà davvero così? Ovviamente no, altrimenti che casa infestata sarebbe?

La prima parte del libro procede un po’ lentamente, o forse è stato solo il mio blocco del lettore che mi ha portato a percepirla come lenta. Tuttavia, ben presto iniziano l’azione e le stranezze. Marian sembra ossessionata dalla casa, Ben è convinto che ci sia qualche magagna, David si diverte come può, la zia Elizabeth, che trascorrerà l’estate con i Rolfe, cerca anche lei di trarre il meglio da questa vacanza, e la signora Allardyce non si fa vedere. Ben presto inizieranno i problemi di salute, si inasprirà l’ossessione di Marian, inizieranno i comportamenti bizzarri dei personaggi.

Il libro mi è piaciuto molto, soprattutto se letto tenendo conto del fatto che ha cinquant’anni. Come dicevo, oggi non fa più paura, ma mi sembra tutt’altro che invecchiato male, se si eccettua l’atteggiamento maschilista che lo permea, per cui Ben tratta sempre la moglie come una mezza cretina, che però lo irretisce completamente. Mi sento di consigliare la lettura agli amanti del genere “case infestate”, secondo me non ve ne pentirete.

Titolo: Burnt Offerings
Titolo italiano: Offerte sacrificali
Autore: Robert Marasco
Casa editrice: Valancourt Books
Pubblicazione originale: 1973
Numero di pagine: 170

Maaza Mengiste, Il re ombra (Etiopia)

Per l’Etiopia, all’inizio del mio giro del mondo, mi ero segnata il nome di Maaza Mengiste. Ora ho trovato questo libro su MLOL e ho deciso di provare a leggerlo, grazie soprattutto al fatto che questo mese con il mio gruppo Libri dal mondo stiamo esplorando l’Etiopia.

È un romanzo abbastanza lungo e questa lunghezza si sente e non si sente. Intendo che a tratti può risultare un po’ pesante, sia per lo stile che per le vicende narrate, ma è talmente interessante che a volte si riesce a passarci sopra.

Lo stile di Mengiste è ricercato, poetico a tratti, rinuncia alle virgolette nei dialoghi (Saramago docet) e inframmezza i capitoli con interludi e cori, un po’ come se si trattasse di un’opera teatrale, quasi una tragedia greca. Tutto questo rende il libro molto particolare e per alcuni potrebbe risultare complesso da leggere. Non è certamente facile, ma dal mio punto di vista anche questo tipo di stile ha il suo perché. Non lo sceglierei se mi chiedessero quale sia il mio stile di scrittura preferito, ma non mi è dispiaciuto, devo dire.

Il romanzo segue le vicende di Hirut, una ragazza che vive come serva a casa di Kidane e Aster, dove lavora insieme alla cuoca, che resterà sempre senza nome. Aster è una donna collerica e viziata, che mi è rimasta estremamente antipatica anche se scopriremo che il suo carattere ha delle ragioni ben precise. Kidane mi è sembrato simpatico all’inizio, con il suo tentativo di proteggere Hirut a cui vuole molto bene, ma scopriremo ben presto che è un mostro. È un personaggio molto ambivalente perché da un lato viene presentato come l’eroe della resistenza etiope all’invasione italiana, dall’altro l’autrice non si preoccupa di nasconderne i tratti mostruosi. Io in definitiva l’ho odiato profondamente, l’ho trovato un personaggio spregevole, che cerca di ammantarsi di un’aura eroica quando, pur essendo il suo eroismo un sicuro dato di fatto, nella vita privata si rivela un essere orribile. Ho sofferto molto con Hirut durante tutto il libro.

Siamo negli anni Trenta, l’Italia invade l’Etiopia senza una dichiarazione formale di guerra, facendo uso di gas letali contro ogni accordo internazionale. Il mito degli “italiani brava gente” si sgretola in pochi secondi in questo libro: vediamo tutto quello che i nostri connazionali hanno fatto di orribile durante la guerra di Etiopia e non possiamo provare alcuna simpatia per nessuno di loro. L’unico italiano che spicca per avere ancora un po’ di sentimenti umani è Ettore Navarra, soprannominato Foto in quanto fotografo ufficiale dell’esercito italiano in Etiopia. Sicuramente è anche lui un personaggio ambivalente, si fatica a capire cosa si prova nei suoi confronti: da un lato fotografa in modo spassionato e indifferente esecuzioni e torture, dall’altro è preoccupato per i genitori ebrei rimasti in patria e a cui è legato da un profondo affetto. Sono pochi in realtà i personaggi non ambivalenti nel romanzo e uno di questi è sicuramente la protagonista Hirut.

Il romanzo narra inizialmente le vicende domestiche di Hirut, per poi passare ben presto a farsi canto della resistenza etiope e denuncia delle atrocità italiane. Molto interessante è il fatto che Mengiste ci mostra come nell’esercito etiope ci fossero anche molte coraggiose donne, tra le quali appunto Hirut e Aster. L’imperatore Hailé Selassié, che seguiamo negli interludi, passa invece come un uomo pavido, che è sì devastato dalla morte della figlia Zenebwork, ma anche privo di mordente, uno che fugge subito di fronte alle difficoltà, anziché schierarsi con il suo popolo in guerra.

In linea di massima l’ho trovato un buon romanzo, non indimenticabile ma sicuramente importante perché ci fa ben vedere come gli italiani non siano affatto stati “brava gente”, bensì dei mostri come tutti i colonizzatori. Inoltre mi è piaciuto il punto di vista diverso: l’autrice ha infatti scelto di non creare un protagonista uomo, cosa che ci si sarebbe potuti aspettare da un romanzo di guerra, ma una ragazza soldato, Hirut. Tutto sommato lo consiglio, fosse anche solo per la tematica importante.

Titolo: Il re ombra
Titolo originale: The Shadow King
Autrice: Maaza Mengiste
Traduttrice: Anna Nadotti
Casa editrice: Einaudi
Pubblicazione originale: 2019
Numero di pagine: 440