Carmine Abate, La festa del ritorno

Carmine Abate, La festa del ritorno, Mondadori, Milano 2004. 161 pagine, 7,80 euro.

Un padre e un figlio si ritrovano davanti al fuoco in piazza, la notte di Natale, a Hora, un paesino arbëresh della Calabria, ovvero un paese di lingua e cultura albanese, come ce ne sono molti nel Sud dell’Italia. Il padre racconta al figlio la sua vita di emigrante in Francia, il figlio Marco a sua volta ripercorre col pensiero alcuni episodi salienti della sua vita.

Un uomo, Tullio, il padre, che è stato costretto ad emigrare da giovane perché con il suo solo lavoro di contadino non riusciva a mantenersi e ad avere una vita dignitosa. È finito in Francia a fare il minatore, poi in seguito a un incidente in miniera ha deciso di fare altro e ora lavora nei cantieri stradali, ma comunque si è sempre un po’ arrangiato con vari lavori che gli consentissero di mandare soldi a casa in Calabria, dove ha una moglie e tre figli a cui provvedere. La figlia più grande, Elisa, non comprende bene la scelta del padre di partire senza la famiglia, e a dire il vero la capisco poco anche io.

Tullio parla dell’emigrazione come di una persona (un bagasciaro, dice lui) che gli tiene la pistola puntata alla tempia e dice “Parti o premo il grilletto”. Un’esperienza che posso capire benissimo, perché l’emigrazione la stiamo rivivendo di nuovo, noi italiani, in questi anni, e come sapete è un’esperienza che ho fatto anche io, sebbene non certo per andare a lavorare in miniera, ma il concetto è pur sempre quello.

Abate, lui stesso originario di una comunità calabrese arbëresh, è emigrato da giovane in Germania, ma credo che ora viva nel Nord Italia. L’autore ci dà dunque uno sguardo sull’emigrazione e sulla vita di una famiglia che ha un membro all’estero, e lo fa certo con cognizione di causa, avendo vissuto lui stesso queste esperienze. Inoltre è interessante lo sguardo sulla comunità arbëresh, comunità di cui si sente troppo poco parlare.

Abate scrive in italiano, ma quando deve riportare i pensieri o i dialoghi dei protagonisti si affida al dialetto calabrese e all’arbëresh. Questo rende la lettura non proprio semplicissima, ma dà comunque un’aria di maggiore autenticità alle vicende narrate.

Il libro è bello ma sinceramente mi aspettavo qualcosa di più. Le mie ultime esperienze mi stanno dicendo di non dare mai troppo peso alle recensioni lette in rete, perché non sempre posso essere d’accordo con quello che leggo. Comunque una lettura consigliata e un autore che vorrei approfondire.

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